di Andrea Deugeni
Torna il clima di tensione nel consiglio di Generali tra Francesco Gaetano Caltagirone e il ceo Philippe Donnet. Al board di ieri, terminato a tarda serata, che aveva all’ordine del giorno la creazione dei comitati interni e la nomina dei loro componenti si è consumata la prima rottura dopo il rinnovo del board. La governance presentata ai consiglieri non prevede più il comitato per le operazioni strategiche presente nel precedente cda di cui Caltagirone era vicepresidente, e la cui costituzione era stata richiesta dal costruttore-editore romano e dagli altri due consiglieri eletti nella sua lista, cioè Marina Brogi e Flavio Cattaneo. Richiesta rispedita al mittente. Quel comitato – hanno fatto sapere dalla compagnia – poteva avere un senso nel precedente organo, in cui sedevano i grandi soci della compagnia mentre adesso il board è espressione della «lista del cda» (che però Caltagirone contesta essere in realtà espressione del primo socio Mediobanca). Per tutta risposta, il costruttore romano ha fatto sapere che né lui né i suoi rappresentanti entreranno nei vari comitati interni (cinque in tutto). La questione sarà capire se si possono avere comitati senza la presenza delle minoranze. Insomma la governance torna a essere un tema di scontro destinata ad agitare le acque nella compagnia. Caltagirone pochi giorni fa è salito peraltro al 5,5% di Mediobanca.
Intanto il tema Generali è tornato sul tavolo dei consigli di Fondazione Crt, socia con l’1,7%. Il 18 maggio si riunirà la Commissione 1 del Consiglio d’indirizzo che avrà all’ordine del giorno un aggiornamento sul destino della partecipazione nella compagnia dopo che a fine aprile l’ente ha appoggiato lista e progetto Caltagirone, usciti sconfitti. Alcuni consiglieri pongono un tema di opportunità, spingendo per la vendita della quota e mettendo in discussione anche la leadership del presidente Quaglia. Il numero uno dell’ente è accusato di aver fortemente schierato, sovraesponendolo, un investitore dalla natura istituzionale. Verranno quindi fatte le pulci su acquisti e relativi prezzi di carico. Fonti interne spiegano però che la dismissione è fuori discussione, perché la quota è ritenuta «strategica»: primo perché ancora plusvalente, secondo perché garantisce un dividend yeld molto interessante per sostenere le erogazioni, terzo perché il momento di mercato suggerirebbe di attendere la fine della guerra in Ucraina per sfruttare l’upside potenziale del titolo e infine perché ad ottobre, al termine dell’opa Atlantia, la fondazione si ritroverà già con un’abbondante cassa da 760 milioni da investire. (riproduzione riservata)
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