di Marco Mizzau*
La pandemia da Covid-19, che ha colpito così duramente le nostre comunità e il nostro vissuto, ha stravolto e rivoluzionato anche l’ecosistema lavorativo e professionale. Ha accelerato trend già in atto, creato nuove necessità e trasformato città, spazi e modalità di interazione, con alcuni denominatori comuni: spinta verso il digitale, trasformazione proattiva dei processi e attenzione alla sostenibilità. Il radicale ripensamento del modello di sviluppo, a livello globale, e dei Piani Industriali di imprese e organizzazioni, nasce quindi da un evento esogeno (come appunto è stata la pandemia) e non da un crisi strutturale, come era avvenuto per i precedenti shock economici del 2008-2009 e del 2011-2012.
Il nostro Paese ha storicamente importanti punti di forza (tra cui creatività, dinamismo, imprenditorialità diffusa e orientata all’export e una capacità di attrazione unica al mondo) ma la crisi ha messo in evidenza alcune grandi contraddizioni e fragilità: tassi di crescita economica e livelli di produttività da anni inferiori a quelli delle altre grandi nazioni europee; un rapporto tra debito pubblico e pil tra i più alti dell’area Ocse (a marzo dello scorso anno sui conti correnti giaceva più dell’equivalente del valore del pil atteso per il 2020: 1.680 miliardi di euro); la scarsa efficienza ed efficacia della macchina amministrativa pubblica; il grande peso dell’economia sommersa (12% del pil) e dell’evasione fiscale (oltre 110 miliardi di euro all’anno); un elevato livello di diseguaglianze di genere, sociali e territoriali come sottolineato dall’Annual Global Wealth Report di Credit Suisse, il 45% della ricchezza complessiva è detenuto dall’1% delle persone e risulta progressivamente in crescita, mentre la metà degli individui sulla terra detiene solo l’1% della ricchezza; un basso tasso di partecipazione femminile al mercato del lavoro e un elevato numero di neet rispetto alle altre nazioni europee, con i nostri giovani che per la prima volta hanno meno prospettive dei loro genitori pur essendo la generazione più istruita di sempre. A tutto questo si aggiunge uno scarso livello di alfabetizzazione finanziaria e previdenziale rispetto alla media Ocse (solo il 37% conosce i concetti chiave). L’analisi del nuovo contesto rende indispensabile riflettere sulla necessità di un intervento strutturale nel segno dell’equità, della sostenibilità e della flessibilità del nuovo sistema economico, ma anche assistenziale e previdenziale. La crisi ha aumentato la propensione al risparmio (che è gigantesco e vale più del doppio del debito pubblico), tuttavia manca la fiducia nei confronti delle pensioni integrative (solo il 23% degli italiani possiede dei fondi pensione aggiuntivi) e l’adeguatezza della prestazione pensionistica complessiva non può prescindere dalla previdenza complementare. L’emergenza sanitaria (divenuta anche economica e sociale) ha riconfermato la necessità di ripensare ai servizi per la popolazione della terza e quarta età. I livelli di assistenza (sanitaria, territoriale e domiciliare) hanno mostrato tutti i loro limiti e le insufficienze, accrescendo le diseguaglianze e lasciando i più fragili abbandonati. In quest’ottica, oggi più che mai, le Casse di Previdenza devono impegnarsi per assicurare un welfare integrato, innovativo, proattivo e reattivo e rispondere alle necessità della persona, e del relativo nucleo familiare, dall’ingresso nel mondo del lavoro alla fase di quiescenza (lifecycle).
Come ha ricordato Papa Francesco, alle tre tipologie di sostenibilità (ambientale, economica e sociale) dobbiamo aggiungere la più importante: quella generazionale. «Non saremo in grado di alimentare la produzione e di custodire l’ambiente se non saremo attenti alle famiglie e ai figli». È l’attenzione nei confronti del capitale umano a fare la differenza. Per questo, innanzitutto, si dovrebbe rendere la previdenza più appealing per i giovani (oggi chi sottoscrive un fondo pensione è nella fascia di età tra i 45 e i 55 anni), consentendo loro di vivere il proprio percorso previdenziale in modo consapevole (anche in termini di investimenti sostenibili) con la possibilità di modificarlo e renderlo più efficiente in caso di necessità. È fondamentale, dunque, un radicale passo di cambio nella comunicazione, che deve arrivare a più persone possibili, con lo strumento informativo più rapido e appropriato, al fine di offrire a tutti, incluse le nuove generazioni, una maggiore consapevolezza del proprio futuro. Il complesso mondo della finanza va reso accessibile a tutti non solo attraverso la formazione (che dovrebbe essere permanente), ma anche rafforzando fiducia, integrità, reperibilità e disponibilità del consulente finanziario rendendolo «partner di vita» che offra soluzioni/prestazioni adeguate al giusto prezzo. In sintesi, è necessario accrescere il livello di consapevolezza per la sostenibilità economica e climatica. Sia il risparmio previdenziale, che vale 1.100 miliardi di euro ed è una delle maggiori fonti di approvvigionamento del mercato finanziario, sia il risparmio gestito, che vale invece 2.400 miliardi, possono contribuire al rilancio del Sistema Paese se sostenuti da politiche pubbliche di promozione e sostegno. Parallelamente, le istituzioni dovrebbero procedere verso lo sviluppo di una nuova Silver Economy rispondente ai criteri Esg e dunque capace di promuovere la sostenibilità nella più grande transizione demografica di tutti i tempi. Molti hanno celebrato l’arrivo del presidente del Consiglio Mario Draghi parlando di «atterraggio» di competenze e di valori come l’umiltà, il coraggio e la meritocrazia nei quali credo e confido moltissimo. Sicuramente dobbiamo sforzarci di uscire dall’autoreferenzialità e dal nanismo delle imprese e tornare a crescere, aprendoci con coraggio alla vita, al mercato, abilitando i nostri talenti nella capacità di esprimersi e promuovendo equità e inclusione.
Questa pandemia rappresenta un’occasione per un radicale cambio di mentalità: lasciare l’annus horribilis e passare all’annus possibilitatis, esplorando nuove potenzialità e modelli di sviluppo, abbandonando la disperazione per la speranza. Per questo, i nuovi «Piani industriali» del post pandemia dovranno orientare il business considerando logiche di «impatto», sociale e ambientale, e trovare nuove logiche di misurazione e rendicontazione che tengano conto non solo dei risultati economici ma del valore generato per la collettività. Tra ecologia del cuore ed ecologia del creato vi è un nesso inscindibile. (riproduzione riservata)
*direttore generale di Inarcassa
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