Probabilmente il meccanismo di Quota 100 a fine anno non sarà rinnovato Le parti sociali propongono alternative che però rischiano di costare troppo. Ecco quali saranno gli impatti sull’età dell’uscita dal lavoro e sugli assegni che verranno erogati
di Paola Valentini
Quest’anno l’1 maggio, la festa dei lavoratori, coincide con il ritorno al centro della scena politico del tema di Quota 100. Il meccanismo di flessibilità in uscita, che permette a chi ha 38 anni di contributi e almeno 62 anni di età di lasciare in anticipo il lavoro rispetto ai requisiti standard, scade alla fine di quest’anno. Ed è bastato un accenno al tema nella bozza del Recovery Plan per riaccendere il dibattito: il governo ha pensato di mettere le mani avanti scrivendo nella versione non definitiva del Piano nazionale di ripresa e resilienza che «in tema di pensioni la fase transitoria di applicazione della cosiddetta Quota 100 terminerà a fine anno e sarà sostituita da misure mirate a categorie con mansioni logoranti».

La dichiarazione, poi cancellata nel testo definitivo, ha scatenato la reazione della Lega, principale sostenitore del meccanismo introdotto nel 2019 in maniera sperimentale per tre anni. E proprio in vista della possibilità che a fine 2021 Quota 100 non sia rinnovato la Lega ha alzato le barricate. D’altra parte il governo italiano segue le raccomandazioni specifiche per Paese della Commissione Europea sulle linee guida per il Recovery fund che chiedono di «attuare pienamente le passate riforme pensionistiche per ridurre il peso delle pensioni di vecchiaia nella spesa pubblica e creare margini per altra spesa sociale e spesa pubblica favorevole alla crescita». Il riferimento è alla legge Fornero del 2012 che prevede un’uscita con la pensione di vecchiaia a 67 anni di età (con 20 anni di contributi) o 42 anni e 10 mesi di contributi indipendentemente dall’età (pensione anticipata che prevede un anno in meno per le donne). Per la Lega va trovata una soluzione che se non sarà Quota 100 deve essere qualche altra formula per evitare lo scalone dei cinque anni dal 2022. «All’Italia serve garantire ricambio generazionale e opportunità di futuro ai giovani», è l’idea del segretario della Lega, Matteo Salvini. Sul tema peraltro è in linea con le proposte dei sindacati. «Bisogna evitare un nuovo scalone a 67 anni e un altro fenomeno esodati. Assicurare l’uscita volontaria dal mercato del lavoro a partire da 62 anni o realizzare l’obiettivo di 41 anni di contributi a prescindere dall’età per godersi il sacrosanto diritto alla pensione sono aspetti di cui bisogna subito parlare con il governo», ha affermato segretario generale della Cisl, Luigi Sbarra. «Sulle pensioni», ha rincarato Salvini, «se l’Ue imponesse di alzare l’età pensionabile, ci opporremo».

Intanto il presidente dell’Inps Pasquale Tridico ha riferito che «sono 286 mila le domande di Quota 100 accolte a fine marzo», precisando che «la spesa rideterminata dai vari decreti è stata di due terzi inferiore e, nel triennio 19-21, si è speso circa 10 miliardi su 19 stanziati». Molti lavoratori hanno scelto di non anticipare la pensione e hanno preferito restare in attività qualche anno in più per non vedersi decurtata la pensione, perché se si esce prima si versano meno contributi. La questione si complica ancora di più considerando la delicata ripresa nel post Covid. Come ha detto il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, «misure ad hoc come contratti di espansione sono molto utilizzate perché servono a ristrutturare le aziende che devono ripartire, in questo momento il ministero si sta concentrando sugli ammortizzatori sociali e sulle politiche attive. Nel frattempo dobbiamo discutere su come gestire la fine di Quota 100».

Per capire gli impatti delle possibili strade che si potranno percorrere è bene partire da un punto fermo: quali sono gli effetti dei primi esclusi da Quota 100 il prossimo anno. Si tratta di chi nel 2022 raggiunge 38 anni di contributi con non meno di 62 anni di età. Le elaborazioni realizzate da Progetica (vedere tabelle) considerano sia l’ipotesi di assenza di nuove forme di anticipo, e quindi di pieno ritorno alle regole Fornero, sia tre scenari di flessibilità dal 2022: il primo è l’irrealistico prolungamento di Quota 100, il secondo è la nascita di Quota 102 (38 anni di contributi e 64 anni di età), il terzo è l’avvio di Quota 41 (anni di contributi) dal 2022. «Le differenze tra le varie alternative, rispetto al meccanismo più favorevole rappresentato da Quota 100, in termini di tempo vanno da poco più di un anno fino a quasi 4,5 anni», spiega Andrea Carbone, partner di Progetica. In termini di riduzione dell’assegno pensionistico, con Quota 100 invece si avrebbe un taglio massimo compreso tra il 6 e il 14%, per il fatto che uscendo a 62 anni mancherebbero cinque anni di versamenti contributivi rispetto al requisito ordinario di 67 anni di età.

Il tutto in assenza di penalizzazioni esplicite. Ma è proprio questo il punto. Le proposte sulla pensione a 62 anni con 41 anni di servizio, visti i vincoli dei conti pubblici, sono troppo care per il governo. Bisogna capire dunque quanto la flessibilità in uscita costerà allo Stato. I ragionamenti sul metodo di calcolo, con le possibili soluzioni, andrebbero da un conteggio tutto contributivo dell’assegno di chi va in pensione prima, con decurtazione della pensione di una quota tra il 20 e il 30%, fino a versioni più leggere e più a favore del lavoratore e meno dei conti dello Stato, che lo taglierebbero in misura inferiore.

Quel che è certo è che il sistema previdenziale italiano ruota sempre più attorno al baricentro rappresentato dal metodo contributivo che lega le pensioni ai versamenti effettuati. Carriere intermittenti e magari che iniziano in ritardo, come quelle delle nuove generazioni, o anche interruzioni di carriere per gli over 50 a causa della mancata crescita, rischiano di creare futuri pensionati poveri. La dinamica economica ha anche un ruolo diretto nel determinare l’importo dell’assegno pubblico. Nel sistema contributivo introdotto dalla riforma Dini del 1995 con applicazione integrale per chi ha iniziato a lavorare dal 31 dicembre 1995 (esteso poi a tutti dalla riforma Fornero del 2012, seppure pro-quota per chi a quell’epoca rientrava nel retributivo), i versamenti sono rivalutati in base allo sviluppo del pil. E un Paese che cresce poco produce pensioni basse. Sicuramente lo scenario con pil all’1,5%, quello usato dalla busta arancione dell’Inps, porta delle stime più positive sull’importo della pensione. Ad esempio, come emerge da un’altra simulazione di Progetica con un pil all’1,5% un trentenne di oggi, dipendente, con un reddito netto mensile di 1.500 euro otterrebbe alla pensione di vecchiaia un assegno attorno ai 1.380 euro, mentre con un pil a zero poco più di 1.070 euro, il 30% circa in meno. Per un quarantenne la decurtazione sarebbe del 20% e per un cinquantenne del 15%. C’è poi un altro nodo legato all’incognita delle norme: «Solitamente si dice che le regole per l’anno successivo dovrebbero essere note al 31 dicembre dell’anno prima, per dare certezza normativa ai lavoratori e consentire le scelte più opportune», conclude Carbone. «In questo caso, complice la pandemia, siamo in ritardo e quindi è auspicabile che il prima possibile vengano definite le regole per almeno il prossimo anno». (riproduzione riservata)

Più investimenti alternativi nel welfare di fondi e casse
Il welfare degli italiani dipenderà sempre di più dagli investimenti alternativi. Come emerge dalla prima edizione dell’Osservatorio del Mefop che analizza l’attitudine di casse di previdenza, fondi pensione e fondi sanitari verso le classi di attivo non tradizionali. La crescente complessità dei mercati finanziari, dovuta anche al calo di redditività degli asset a cui di solito ricorrono gli investitori di welfare, ovvero i titoli di Stato, sta accrescendo l’attenzione nei confronti degli alternativi. Anche perché la copertura della passività pensionistica che, per definizione, è un’obbligazione di lungo periodo, ben si concilia con il ricorso ai fondi di private equity, venture capitale, al private debt, alle infrastrutture e al real estate, ovvero l’universo degli alternativi (che comprende anche gli hedge fund). Mefop osserva che l’inclusione o l’aumento dell’esposizione di tali strumenti nei portafogli potrebbe agevolare il raggiungimento degli obiettivi di redditività sottostanti alle prestazioni da erogare. Se per le casse di previdenza l’allocazione in alternativi rappresenta una prassi consolidata (il 100% delle casse interpellate prevede il ricorso a investimenti non tradizionali, in particolare l’immobiliare, anche perché questi enti godono di una maggiore libertà di manovra) così non è per i fondi sanitari dove la quota è a zero, una situazione comprensibile. La gestione del loro patrimonio è sostanzialmente basata sull’investimento a breve della liquidità, data la caratteristica temporale degli impegni, per quanto nel corso degli ultimi anni, soprattutto per la componente di più lungo periodo destinata alla copertura delle prestazioni Ltc (Long term care, ovvero non auto-sufficienza) si è avviata una riflessione sulla quota di patrimonio investibile nel medio-lungo periodo con un’apertura maggiore agli investimenti nell’economia reale e, data la peculiarità del settore, mission related. I dati relativi alle intenzioni future (tabella qui sopra) in effetti evidenziano una possibile apertura. «La realtà dei fondi pensione si presenta più articolata; il 47% dei partecipanti ha detto di detenere alternativi ma è palpabile un interesse crescente, anche in risposta al contesto macro degli ultimi anni che, presumibilmente, è destinato a protrarsi nel medio periodo», conclude Mefop. (riproduzione riservata)

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