L’erogazione dell’indennizzo da parte dell’INAIL a seguito di contagio da COVID19 implica automaticamente una responsabilità, civile ma anche penale, del datore di lavoro? Quest’ultimo è responsabile anche se i suoi dipendenti svolgono una attività fortemente orientata alle pubbliche relazioni con numerosi contatti quotidiani? Lo abbiamo chiesto ad uno dei massimi esperti del settore. L’Avv. Alessandro Limatola, responsabile dell’omonimo studio legale. 

Intervista a cura di MR. OLIVIERO

Ai sensi del DL 18 del 2020 convertito nella Legge 27 del 2020 e della successiva circolare INAIL 22 del 2020 cosa deve fare un datore di lavoro per non essere ritenuto responsabile del contagio di un suo dipendente?

Precisiamo subito che la previsione dell’art. 42 del “Cura Italia” – che, per primo, ha qualificato l’infezione da Covid -19 quale infortunio sul lavoro – e la circolare INAIL n. 13/2020, hanno creato allarme tra gli imprenditori che hanno intravisto una sorta di “responsabilità oggettiva” del datore di lavoro per la contrazione di un virus le cui cause e dinamiche sono ad oggi ancora poco conosciute.

In particolare, grande preoccupazione aveva generato la presunzione (semplice) da parte dell’INAIL della natura professionale dell’infortunio per gli operatori sanitari e per i lavoratori che hanno un costante contatto con il pubblico e perciò maggiormente esposti al rischio-contagio, specie per coloro che lavorano in contatto diretto con il pubblico, in front/office alla cassa o addetti alle vendite/banconisti.

Il dibattito tra gli operatori ma anche nell’opinione pubblica è stato talmente acceso che l’INAIL, anche su sollecitazione del Ministero del Lavoro, è nuovamente intervenuto sul tema con la recente circolare interpretativa n. 22 del 20 maggio 2020.

Con essa è stato chiarito in sintesi che:

– il riconoscimento dell’origine professionale del contagio non è automatico e rimane distante da ogni valutazione in ordine all’imputabilità di eventuali comportamenti omissivi dal datore di lavoro;

– non va fatta confusione tra i presupposti per l’erogazione dell’indennizzo Inail ed i presupposti della responsabilità (civile e penale) del datore di lavoro, che vanno sempre accertati in sede giudiziaria e richiedono la prova del nesso di causalità e dell’imputabilità quantomeno a titolo di colpa della condotta del datore di lavoro.

Conclude l’INAIL che “La responsabilità del datore di lavoro è ipotizzabile solo in caso di violazione della legge o di obblighi derivanti dalle conoscenze sperimentali o tecniche, che nel caso dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 si possono rinvenire nei protocolli e nelle linee guida governativi e regionali di cui al D.l. n. 33 del 16 maggio 2020“.

In sintesi: una cosa è il profilo assistenziale dell’infortunio che è competenza dell’INAIL, altra cosa è l’eventuale responsabilità contrattuale del datore di lavoro che rimane ancorata all’obbligo di tutela della salute dei lavoratori prescritto dall’art. 2087 c.c e richiede, quale presupposto necessario da accertare, l’inadempimento del datore di lavoro all’obbligo di adottare le misure precauzionali minime nonché il nesso causale tra il detto inadempimento e il danno subìto dal lavoratore.

Quanto all’onere probatorio, è onere del lavoratore dimostrare l’inadempimento del datore ai suoi obblighi in materia di salute e sicurezza.

Il lavoratore dovrà ovviamente allegare e dimostrare anche di essere stato diligente nell’adozione delle cautele prescritte dal datore di lavoro e dalla legge. Di non essere venuto a contatto con soggetti e familiari affetti da COVID 19 etc. In altre parole dovrà dimostrare anche il nesso di causalità tra infezione contratta e comportamento omissivo del suo datore di lavoro.

Il datore di lavoro dovrà però, dimostrare in linea generale di aver adottato tutte le misure necessarie a tutelare i dipendenti.

Nell’attuale situazione emergenziale è certamente difficile delineare i confini di tali misure ma dirimente sarà ritenuto il rispetto del «Protocollo di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro» del 24 aprile 2020, allegato sotto il n. 12 anche al DPCM del 17 maggio 2020.

Sostenere che l’art. 2087 c.c. imponga al datore l’individuazione di misure ulteriori e diverse da quelle previste dal Protocollo, sarebbe oggi un onere troppo gravoso per l’impresa.

Il Protocollo fornisce linee guida e più nello specifico una serie di misure precauzionali volte a ridurre il rischio di contagio.

Possiamo quindi suggerire di adottare protocolli aziendali – ove possibile condivisi con i sindacati – che recepiscano le linee-guida e le integrino con prescrizioni attinenti alle specifiche realtà aziendali. Nel suddetto Protocollo, il Covid-19 è stato definito un “rischio biologico generico” che comporta la necessità di adottare misure uguali per tutta la popolazione.

Rimane, però, l’obbligo per il datore di lavoro di provvedere all’aggiornamento del Documento di Valutazione dei Rischi (DVR). Fondamentale è poi l’aggiornamento del DVR (documento valutazione dei rischi) con indicazione specifica dei fattori di rischio effettivamente in essere in azienda e le misure adottare in relazione a questi.

Il Governo ha accolto le istanze del mondo imprenditoriale inserendo in sede di conversione del c.d. Decreto Liquidità, l’art. art. 29 bis nel quale si dà atto che i datori pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’art. 2018 c.c. mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel Protocollo tra Governo e sindacati del 24 aprile 2020 e successive modifiche.

Sempre rispetto alla medesima normativa può essere modulata la responsabilità del datore, tenendo conto di situazioni ad alto rischio come può essere quella del dipendente che svolge l’attività di “commerciale interno” di una azienda, considerando che è una professione che per sua natura prevede un alto tasso di mobilità e intense pubbliche relazioni, e che il DATORE non ha la possibilità di sanificare gli ambienti? Basta fornire formazione, informazioni e dpi?

Escluderei la possibilità di modulare la responsabilità del datore in funzione del tipo di attività svolta dal proprio dipendente. Il datore di lavoro ha l’obbligo di assicurare che nello svolgimento della propria attività ogni dipendente non venga esposto a rischi specifici di contagio, rischi che variano ovviamente in funzione delle mansioni da ciascuno disimpegnate.

Il datore di lavoro che vuole andare esente da responsabilità deve assicurare il rispetto del Protocollo più volte menzionato specie laddove limita la mobilità dei lavoratori prescrivendo l’utilizzo dello Smart Working tutte le volte in cui ciò è possibile e sospendendo la mobilità del personale.

Laddove fosse indispensabile (e non solo una mera facoltà) per il commerciale interno di recarsi dal cliente per lo svolgimento della propria prestazione è necessario che il Datore di Lavoro predisponga – sempre preferibilmente d’intesa con la parte sindacale – protocolli specifici di sicurezza e prevenzione del contagio che tengano conto delle mansioni concretamente disimpegnate dai propri dipendenti da svolgere in esterna.

Quale suggerimento di carattere giuridico si sente di fornire ai datori di lavoro che devono affrontare questa prova per viverla più serenamente possibile?

Innanzitutto assicurare il rispetto effettivo del Protocollo. In secondo luogo redigere protocolli aziendali che tengano conto dei diversi livelli di esposizione al rischio del proprio personale. Successivamente, dare la più ampia informazione e formazione del personale circa le misure e di comportamenti da tenere. Vigilare, infine, sul rispetto delle misure contenute nel Protocollo governativo ed in quelli aziendali o di filiera. Senza dimenticare di intervenire tempestivamente anche in sede disciplinare per sanzionare le condotte dei singoli dipendenti idonee a mettere a rischio la propria salute, quella dei colleghi di lavoro e dei terzi in genere. In questo ambito è importante modulare le sanzioni in modo proporzionale al rischio cui il lavoratore espone sé stesso e gli altri.