Lo rileva il Rapporto Osservasalute: in Italia curarsi costa in media 2.426 euro pro capite
La quota pubblica è altalenante, la privata cresce sempre
Pagina a cura di Sabrina Iadarola
Quanto costa curarsi in Italia? Abbastanza, ma non troppo (almeno se si guarda al panorama europeo). Nel 2016 la spesa complessiva attribuita a ogni cittadino per la salute è stata quantificata in oltre 2 mila euro (2.426 euro per la precisione). Di cui un quarto pagato di tasca propria (quello che viene definito «out of pocket») e gli altri tre quarti dal Sistema sanitario nazionale. È il quadro che emerge dal recente Rapporto Osservasalute nel quale si passano al setaccio spesa sanitaria pubblica e privata. E dal quale risulta che la spesa sanitaria pubblica pro capite in Italia ha raggiunto 1.845 euro, con un aumento, tra il 2015 e il 2016, pari a +0,38%, e con oscillazioni variabili a seconda delle regioni: 2.285 euro per un cittadino che vive in provincia di Bolzano, che diventano 1.738 euro quando ci si sposta in Sicilia. Cifre consistenti, sebbene la spesa sanitaria pubblica pro capite italiana resti, comunque, tra le più basse dei Paesi Ocse. Diverso è il quadro della spesa sanitaria privata pro capite (rispetto a quello della spesa pubblica) che a livello nazionale raggiunge quota 588,10 euro con un trend crescente dal 2002 in poi a un tasso annuo medio dell’1,8%. Con picchi, in basso e in alto, che oscillano tra lo 0,6% delle Lombardia e il 3,7% della Basilicata. Ma è utile comparare l’andamento di spesa sanitaria pubblica e privata pro capite: la seconda non accenna a diminuire né a livello nazionale né regionale, mentre la spesa sanitaria pubblica pro capite ha un andamento incostante sia a livello nazionale che regionale.
Al di là del quadro economico, è interessante osservare anche le performance in sanità legate ai Ssr (Sistemi sanitari regionali), dalle quali risulta buona la copertura dei sistemi sanitari nelle regioni del Centronord, mentre per il Meridione appare urgente un forte intervento utile a evitare discriminazioni sul piano dell’accesso alle cure e dell’efficienza. La proiezione delle regioni sul piano delle performance dei Ssr delinea infatti quattro gruppi di regioni: quelle a bassa performance (Campania, Sardegna, Sicilia in miglioramento, Calabria e Puglia) quelle a media performance (Basilicata in miglioramento, Molise in peggioramento, Abruzzo e Lazio), quelle con buona performance e alta spesa (Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige, Piemonte e Liguria in peggioramento) e quelle ad alta performance (Umbria in peggioramento, Marche, Lombardia, Emilia-Romagna, Toscana, Veneto e Friuli Venezia Giulia). Differenze che Walter Ricciardi, presidente dell’Istituto superiore di sanità, nonché coordinatore dell’Osservatorio nazionale sulla salute nelle regioni italiane che ha sede a Roma presso l’Università Cattolica (a cui si deve la redazione del rapporto citato) ha commentato così: «È evidente il fallimento del Servizio sanitario nazionale, anche nella sua ultima versione federalista, nel ridurre le differenze di spesa e della performance fra le regioni. Rimane aperto e sempre più urgente il dibattito sul “segno” di tali differenze. Si tratta di differenze inique perché non «naturali”, ma frutto di scelte politiche e gestionali». E ha aggiunto: «È auspicabile che si intervenga al più presto partendo da un riequilibrio del riparto del Fondo sanitario nazionale, non basato sui bisogni teorici desumibili solo dalla struttura demografica delle regioni, ma sui reali bisogni di salute, così come è urgente un recupero di qualità gestionale e operativa del sistema, troppo deficitarie nelle regioni del Mezzogiorno».
Sarà allora per questa «carenza» competitiva tra una regione e l’altra sull’assistenza garantita che per curarsi ci si muove così tanto? Ricordiamo che la mobilità sanitaria è un vero e proprio «business» pubblico da 4,6 miliardi. In cui, nel riparto 2018 concordato dai governatori delle regioni per 110,132 miliardi circa a febbraio (che deve ancora essere formalizzato in Conferenza stato-regioni), quattordici regioni sono debitrici e sette creditrici, oltre al Bambino Gesù e all’Associazione dei cavalieri italiani del Sovrano militare Ordine di Malta (ACISMOM). Chi deve di più è la Calabria che raggiunge un saldo negativo di oltre 319 milioni, seguita dalla Campania con più di 302 milioni e dal Lazio con oltre 289 milioni. Chi guadagna di più è la Lombardia che deve incassare oltre 808,6 milioni, seguita da Emilia Romagna con quasi 358 milioni e Veneto con 161,5 milioni circa da avere.
Premiata la sanità lombarda. Non solo la Lombardia ha il credito più alto d’Italia (quasi 809 milioni di euro che le devono essere rimborsati dalle altre regioni per aver curato pazienti non lombardi), ma risulta essere anche la regione preferita dagli italiani per le proprie cure. Nel 2016 la sanità lombarda ha attratto il maggior numero di pazienti non residenti con 163 mila ricoveri extraregionali. Seguita da Emilia-Romagna (109 mila), Lazio (78 mila), Toscana (69 mila) e Veneto (61). Sono alcuni dei dati riportati nell’approfondimento pubblicato su Lombardia Speciale, a partire dall’analisi di Demoskopika. La maggior parte dei pazienti che sceglie di farsi curare in un’altra regione è residente nelle regioni del Sud, dove secondo l’analisi, la migrazione sanitaria è maggiore. La media più alta è infatti al Sud (14,6%), con picchi del 27,2% registrati in Molise, del 23,9% in Basilicata e del 20,9% in Calabria. Al Centro il tasso di migrazione sanitaria è dell’8,9%, mentre il più basso è al Nord con il 6,8%. Ed è la Lombardia ad avere l’indice più basso: con appena il 4,7 %, la regione registra il rapporto minore di ricoveri fuori regione dei residenti sul totale dei ricoveri totalizzando dunque il massimo del punteggio (100 punti).
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