Nel private equity i fondi italiani sono i primi della classe
Primi nel private equity. Secondo l’ultimo report di eFront, società di analisi inglese attiva in 48 Stati, i fondi italiani di private equity mostrano i migliori rendimenti in Europa dal 1991. Nello specifico, i fondi venture capital italiani hanno prodotto dalla nascita a oggi un Irr (tasso di rendimento interno) del 10,11%, il più alto rapporto rischio-rendimento esclusi Stati Uniti e Cina. Mentre i migliori dati a livello globale sono quelli registrati negli Stati Uniti, che hanno raggiunto il 14,37% e in Cina con l’11,53%. Il secondo arrivato in Europa è invece il Regno Unito, con un tasso interno di rendimento del 5,32%. Nel caso invece dei fondi di tipo leveraged buy-out (lbo), specializzati in acquisizioni attraverso debito, l’Italia si è collocata all’altra estremità, con un Irr appena del 3,73%. Fa eccezione il periodo 2008-2012, durante il quale questi strumenti hanno ottenuto una performance decisamente migliore (14,4%).
Nel complesso il rendimento dei veicoli lbo europeo è guidato dal Benelux con il 17,27%, seguono i fondi nordici con il 16,47% e il Regno Unito con il 15,76%. eFront sottolinea nel suo report che, sul lato del capitale di rischio, i fondi italiani offrono la migliore performance rapportata al rischio, escludendo la Cina. I fondi di private equity definiti «pienamente realizzati» hanno ottenuto risultati meno soddisfacenti, generando un Irr del 6,78%, mentre i fondi attivi hanno generato un rendimento dell’11,11%. eFront nota che «si potrebbe essere tentati di supporre che i fondi attivi italiani stiano spingendo i rendimenti complessivi grazie a una favorevole accelerazione delle valutazioni delle startup». Secondo la società di analisi dati «l’Italia, spesso trascurata a favore di mercati di venture capital europei più avanzati, potrebbe essere un buono spunto per gli investitori disposti a cogliere prestazioni interessanti» con livelli contenuti di rischio.
Secondo Marco Mazzucchelli, transaction advisory services leader per l’area mediterranea di EY, l’Italia del 2018 sta vivendo un momento di grande disponibilità di liquidità e il dry powder, ovvero la capacità di investimento dei fondi di private equity, non solo in Europa ma a livello globale, si trova ai massimi storici del periodo post-crisi. Secondo EY, a fine febbraio di quest’anno si assestava a 1,64 miliardi di dollari. Una marea di denaro in attesa di essere investito.
Se si considera che negli ultimi anni sono entrati in scena importanti fondi di private equity internazionali interessati a investire, l’Italia appare oggi molto appetibile per la sua ricchezza di pmi molto vivaci. Se si prendono a parametro i multipli delle transazioni di m&a per il segmento delle medie imprese ad aprile, rimangono ancora più elevati a livello europeo e americano rispetto al mercato italiano. Gli investitori pertanto possono investire con un multiplo relativamente più contenuto in Italia, tenendo conto di un rapporto medio fra enterprise value ed ebitda di 8,1 volte in base ai dati 2017, rispetto all’Europa che viaggia a 8,9 volte.
Queste valutazioni, unite alle competenze tecnologiche e alla notorietà dei brand del Made in Italy, hanno determinato un crescente, rinnovato interesse per il mercato italiano, non solo da parte di operatori strategici esteri, ma anche di fondi di investimento italiani e internazionali. E’ indubbio, riprende EY, che questa elevata disponibilità di capitali ha reso la competizione per l’acquisizione di imprese target più agguerrita, portando a un incremento dei multipli. Tuttavia le potenzialità di crescita e di internazionalizzazione che caratterizzano le pmi italiane le rendono comunque interessanti, se i multipli non cresceranno troppo.
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