Per la Cassazione le unit linked sono da considerare strumenti d’investimento
La sentenza può penalizzare i contratti del ramo III (un terzo del mercato) nella tassazione di plusvalenze ed eredità
di Carlo Brustia
Una pronuncia della Corte di Cassazione sulle polizze unit linked rischia di trasformarsi in una bomba a orologeria per l’intero sistema assicurativo. Secondo i giudici, infatti, questi prodotti rappresentano investimenti finanziari e non polizze Vita. Con la sentenza 10333/2018 la Cassazione ha stabilito infatti che le polizze Vita sono da considerarsi tali solo se garantiscono la restituzione del capitale investito, altrimenti sono contratti di investimento ordinari. E tali sarebbero i contratti assicurativi del cosiddetto ramo III, sottoscritti da due persone fisiche attraverso una società fiduciaria, di cui si è occupata la Cassazione, che ha confermato una pronuncia della Corte d’Appello di Milano che andava nella stessa direzione.
La pronuncia ha messo in subbuglio il mondo assicurativo, del quale il ramo Vita rappresenta uno dei pilastri del business in Italia: basti pensare che nello scorso febbraio la nuova produzione Vita aveva raggiunto 7,8 miliardi, di cui 5 miliardi relativi a polizze tradizionali e 2,7 miliardi al III, cioè il 35% del giro d’affari del segmento. Secondo i giudici del Palazzaccio, se viene a mancare la garanzia della conservazione del capitale alla scadenza, il prodotto oggetto dell’intermediazione deve essere considerato un vero e proprio investimento finanziario da parte degli assicurati e non una polizza assicurativa sulla vita. Il rischio, insomma, deve ricadere sulla compagnia; se invece ricade sull’assicurato, in base alle performance, non si può più considerare una polizza ma un investimento finanziario. In questo modo tutte le polizze di ramo III (index e unit linked) che sono anche oggetto di distribuzione dei financial advisor verrebbero a essere penalizzate soprattutto dal punto di vista fiscale, perché la tassazione delle plusvalenze per le polizze è differente rispetto ai contratti di investimento. Inoltre le polizze sono esenti da tasse di successione.
L’Ania con una nota ha cercato di ridimensionare la portata della pronuncia. «La sentenza della Corte di Cassazione non prende posizione sulla qualificazione dei contratti assicurativi sulla vita ma si riferisce a un caso specifico, caratterizzato dal ruolo assunto da una società fiduciaria. Il caso oggetto del giudizio riguarda in particolare errori di trasparenza e di comportamento relativi a un singolo prodotto, commercializzato nel 2006», spiega l’associazione che rappresenta le compagnie assicurative. «Non si rilevano nella pronuncia della Suprema Corte conclusioni che mettano in dubbio la connotazione di prodotto assicurativo con riferimento alle polizze con contenuto finanziario, che peraltro già allora risultavano soggette a precisi obblighi di trasparenza e regole di condotta. Da sempre, del resto, le normative italiana ed europea identificano come prodotti assicurativi sulla vita polizze con caratteristiche specifiche, indipendentemente dalla garanzia di restituzione del capitale. Le polizze sulla vita sono contraddistinte da garanzie di tipo finanziario e demografico, cioè legate alla vita dell’assicurato (esempio: caso morte e conversione in rendita). Pertanto nessun dubbio può essere espresso sulla natura assicurativa di questi prodotti. (riproduzione riservata)
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