La pronuncia 8676/2000, sostanzialmente pronunciandosi in senso difforme dalle precedenti pronunce, si era espressa nel senso che le somme dovute dall’assicuratore in forza di assicurazione sulla vita vanno escluse dall’attivo fallimentare, ex art. 46 n. 5 l.f., soltanto se esse costituiscano l’oggetto del contratto in relazione alla funzione tipica di quest’ultimo, riferita al momento della naturale cessazione del rapporto; ne consegue che, essendo la fattispecie contrattuale dell’assicurazione sulla vita funzionale al conseguimento dello scopo di previdenza (del risparmio finalizzato alla previdenza), tale finalità può dirsi raggiunta soltanto nel caso in cui il contratto abbia raggiunto il suo scopo tipico (quello, cioè, della reintegrazione del danno, provocato dall’evento morte e/o sopravvivenza, attraverso la prestazione dell’assicuratore preventivamente stimata idonea a soddisfare l’interesse leso da tale evento), e non anche in quello in cui l’assicurato, mercé l’esercizio del diritto di recesso ad nutum, recuperi al suo patrimonio somme che, pur realizzando lo scopo di risparmio, non integrano altresì gli estremi della funzione previdenziale, e che, pertanto, vanno del tutto legittimamente acquisite all’attivo fallimentare (operandosi in tal caso lo scioglimento del contratto ipso iure, e senza che rilevi, in contrario, la dizione letterale dell’art. 1923 cit., nel quale il riferimento alle somme dovute, pur non contenendo alcuna distinzione di titolo obbligatorio, è pur sempre rapportabile all’obbligazione principale dedotta in contratto, mentre il versamento dell’importo del riscatto a seguito di recesso postula una situazione esattamente contraria, e cioè la cessazione anticipata del rapporto stesso).
Il contrasto determinatosi a sèguito di detta sentenza è stato risolto dalle pronuncia delle Sezioni unite 8271/2008, che, posta la valenza, in chiave di interpretazione costituzionalmente orientata, da riconoscersi al valore della previdenza che l’art. 1923 c.c. è inteso a tutelare sia in via diretta che indiretta, e considerata la dimensione assunta nell’attuale contesto sociale dallo strumento dell’assicurazione sulla vita, quale forma di assicurazione privata maggiormente affine agli istituti di previdenza elaborati dalle assicurazioni sociali, ha respinto un’interpretazione restrittiva dell’art. 1923 c.c. escludendo quindi che la rete di protezione da azioni esecutive o cautelari che detta norma appresta al credito dell’assicurato per le somme dovutegli dall’assicuratore in base al contratto di cui al precedente art. 1919 c.c., si dissolva a fronte di esecuzione concorsuale, e che – nel quadro di questa – il bilanciamento degli opposti interessi possa risolversi privilegiando quella dei creditori, con forme di tutela ulteriori rispetto a quella (revocatori) espressamente, all’uopo, già prevista dalla disposizione di cui al comma secondo dello stesso art. 1923 c.c.
E, concludono le Sezioni unite, anche dopo la dichiarazione di fallimento rimane in vigore, nei sensi e nei limiti di cui all’art. 1924 c.c., il contratto di assicurazione sulla vita, stipulato dal fallito in bonis, e, stante l’impignorabilità ex art. 1923 c.c. dei crediti del fallito derivanti dal non disciolto contratto, detti crediti rientrano tra le cose non compresi nel fallimento, ex art. 46 n. 5 c.p.c., da ciò conseguendo infine che il curatore non è legittimato a chiedere lo scioglimento del contratto per acquisire alla massa il corrispondente valore di riscatto, potendo solo agire in revocatoria in relazione ai premi pagati, ove il contratto sia stato stipulato non per finalità previdenziali, ma in pregiudizio dei creditori.
Ciò posto, ed avendo ben chiaro il principio specificamente espresso dalle Sezioni unite, relativo alla carenza di legittimazione del curatore ad esercitare il riscatto, appare chiaramente la diversità della fattispecie oggetto del presente giudizio.
Nella specie, infatti, non si pone alcuna questione relativamente all’esercizio del diritto di riscatto, avendo la società assicuratrice già corrisposto, dopo la dichiarazione di fallimento, agli assicurati, falliti, le somme conseguenti al riscatto, che si deve pertanto ritenere esercitato dagli assicurati.
Ne consegue la palese ultroneità di ogni riferimento in ricorso all’esercizio del diritto di riscatto da parte del curatore, che è quindi questione che non attiene alla materia del contendere.
Nella specie, si deve concludere per la sussistenza di pagamenti eseguiti ai falliti dopo il fallimento, come tali soggetti alla sanzione dell’inefficacia ex art. 44, 2 comma, l.f..
E tale soluzione trova supporto nella stessa norma, atteso che l’art. 1923 c.c. si riferisce alle somme dovute e non già anche a quelle corrisposte, e ben si accorda con il rilievo che, volta che sia venuto meno il contratto di assicurazione sulla vita, viene a cessare ogni funzione previdenziale; né, infine, come osservato da attenta dottrina, ove si aderisse alla tesi della ricorrente, sarebbe giustificabile la creazione di una sorta di patrimonio separato, venuto meno il contratto.
Corte di Cassazione, sez. I Civile, 6 febbraio 2015 n. 2256