di Angelo De Mattia
Dopo nove anni e due sentenze di proscioglimento «perché il fatto non sussiste» relativamente alla vicenda della scalata Unipol -Bnl, Antonio Fazio è stato definitivamente assolto con la decisione della Corte di Cassazione che, accogliendo le tesi della difesa esposte con rigore e perizia da Franco Coppi e Roberto Borgogno, ha respinto i ricorsi contro l’ultima assoluzione presentati dalla Procura generale di Milano e dal Banco di Bilbao. Quest’ultimo, come si ricorderà, assistito dalla Goldman Sachs – e, più in particolare, dall’allora esponente della banca d’affari, Mario Draghi che, successivamente, divenuto governatore della Banca d’Italia si astenne formalmente dall’intervenire sulle ricadute di quella vicenda – aveva lanciato un’opa sulla Bnl che riscosse ben limitate adesioni. Per di più, il presunto reato di cui infondatamente era accusato l’ex Governatore (concorso morale in aggiotaggio), già di per sé impalpabile, era prescritto dal 2012. Si può comunque affermare che, alla fine, vi è stato «un giudice a Roma», che ha deciso nel merito e non si è avvalso della prescrizione. È vero, però, che, perché ciò accadesse, ci sono voluti nove anni nei quali su numerosi mezzi di comunicazione si è susseguita un’abbondanza di attacchi, di gossip, di opinioni che estendevano, a macchia d’olio, le asserite responsabilità che si facevano travalicare nel campo politico, mentre si ritenevano le richieste della Procura milanese già una sentenza definitiva, maldestramente confermate poi dal pronunciamento del tribunale che emise una decisione di condanna fulminata per la sua inconsistenza dalla Corte d’appello di Milano la quale assolse Fazio (e altri). E lo fece con la formula che dovrebbe suonare come la peggiore bocciatura per un giudizio emesso da una istanza inferiore, quella cioè della insussistenza del fatto. Ma neppure questo bastò alla Procura e al Bilbao che, previo ricorso, ottennero dalla Cassazione un riesame da parte di un’altra sezione della Corte d’appello, la quale ugualmente pronunciò l’assoluzione piena. Ancora una volta Procura e Banco, con una singolare pervicacia nell’obiettivo di ottenere una condanna che era chiaramente divenuta impossibile dopo la rigorosa e incontrastabile seconda sentenza di assoluzione, hanno ripresentato ricorso in Cassazione, conseguendo il risultato che hanno meritato. Il Bbva, che addirittura aveva chiesto l’astronomico risarcimento di 1 miliardo, è stato condannato al pagamento delle spese. Una sconfitta secca.
Nel corso di questi anni Fazio non ha mai detto una sola parola sulla sua vicenda; non ha colto occasioni per mettersi in mostra nelle materie che egli domina come pochissimi, a partire dalla macroeconomia e dalla politica monetaria, ha manifestato costantemente rispetto nei confronti dell’Autorità giudiziaria, si è difeso esclusivamente nel processo confidando nella certezza della sua non colpevolezza e nella professionalità dei difensori di fare emergere l’errore grave commesso nel considerarlo responsabile. L’atteggiamento tenuto è stato, insomma, da uomo di Stato, da hombre vertical. La conclusione di questa vicenda – che segue alla pronuncia su Antonveneta che avrebbe dovuto essere in tutto simile a quella in discorso perché uguale era l’estraneità da illegittimità – non è tale da poter far dire che tutto è bene quel che finisce bene perché nove anni di critiche, di attacchi e, per converso, di legittime attese sono troppi per avere finalmente giustizia. Per di più la funzione inquirente aveva già dovuto subire l’assoluzione in primo grado, per la sua totale estraneità, di Francesco Frasca, all’epoca direttore centrale della Vigilanza, anch’egli infondatamente inquisito, anch’egli costretto a passare anni per conseguire l’ammissione della sua totale innocenza.
E, allora, ci sarebbe da chiedersi, come si rimedia a questi veri e propri fallimenti? Come si muta un costume che di fatto rovescia l’iter processuale per cui già dalle indagine si stabilisce una condanna e poi bisogna sudare tanti anni per ritornare all’innocenza che poteva ben essere constatata prima? Come si può agire perché alle enormi quantità di pagine di giornali che si occupano di una vicenda giudiziaria quando ancora è agli inizi, allorché viene inviato l’avviso di garanzia o quando si chiede il rinvio a giudizio, segua almeno un centesimo di pagine che si occupano della vicenda stessa quando poi si viene assolti, anziché, come puntualmente accade, relegare il proscioglimento in poche e a volte incomprensibili righe?
Dopo la verità giudiziaria nelle vicende delle opa bancarie del 2005, si avvicina il momento della verità storica che faccia comprendere a fondo il contesto, che illumini su quella che efficacemente un leader politico definì come una vera canea contro la Banca d’Italia, sui disegni che allora si tentarono, sulla legge per la cosiddetta tutela del risparmio, i lavori preparatori della quale, poi in diversi punti rivisti, avevano la finalità principale di colpire l’autonomia di Via Nazionale, sullo scambio di atti di furbizia burocratica vecchio stile per atti di eroismo, su avanzamenti di carriera che facevano ricordare il dantesco «diviene un Marcello ogni villan che parteggiando viene».
Forse si è un po’ dimenticato, tra i diversi meriti, il contributo che Fazio diede con la leva della politica monetaria per sconfiggere l’inflazione e le relative aspettative a metà degli anni Novanta e per promuovere la più grande riorganizzazione bancaria del dopoguerra sempre in quegli anni: un consolidamento che è stata la base fondamentale per dar modo alle banche italiane di resistere alla crisi globale e a quella europea. C’è un dovere, allora, di informare e smitizzare. La sentenza della Suprema Corte rappresenta una oggettiva spinta a farlo. Ma poi bisogna anche riesaminare il contenuto e il perimetro di alcuni reati finanziari, quale l’aggiotaggio, troppo ampi essendo i confini e troppo indeterminate le statuizioni. (riproduzione riservata)