di Mauro Romano
Alla fine Matteo Renzi ha deciso di minimizzare l’impatto sui conti pubblici della decisione della Corte costituzionale, che ha recentemente bocciato il blocco dell’indicizzazione delle pensioni stabilito dal governo Monti. Niente rimborso generalizzato di tutti gli arretrati, che sarebbe costato circa 18 miliardi, spingendo il deficit 2015 oltre il 2,6% del pil già approvato dalla Ue, per sfondare anche la quota simbolo del 3% (3,6%, per l’esattezza).
La platea dei beneficiari sarà quindi più ridotta e comprenderà i 3,7 milioni di pensionati che percepiscono meno di 3.200 euro lordi al mese. A loro andrà un bonus una tantum che rimborserà solo una parte degli arretrati 2012-13. La cifra sarà in media di 500 euro. Dal 2016 ci sarà invece un meccanismo di calcolo dell’indicizzazione (definito da Renzi «più generoso») che dovrebbe garantire un aumento del reddito pensionistico «permanente». La copertura economica sarà assicurata in larga parte dal famoso «tesoretto» da 1,6 miliardi che nasce dalla differenza fra il deficit programmatico (2,6%) e tendenziale (2,5%), per il resto è possibile che si attui una mini spending review.
Nella conferenza stampa che è seguita alla riunione del consiglio dei ministri, Renzi ha spiegato che il bonus sarà a scalare, più alto per i pensionati che percepiscono un assegno più magro e via via più alto per i redditi a salire. Chi percepisce una pensione di 1.700 euro lordi avrà diritto a un bonus da 750 euro. Chi prende 2.200 euro lordi ne porterà a 450, chi percepisce invece 2.700 euro lordi di euro ne prenderà 278, arrivando così alla media di 500 euro. Per quanto riguarda il nuovo meccanismo a regime dal 2016, a chi prende 1.700 euro lordi andranno 180 euro l’anno grazie all’indicizzazione, cifra che scenderà a 99 euro all’anno per chi prende 2.200 euro lordi e a 60 euro per i pensionati da 2.700 euro lordi al mese. Resteranno ovviamente a secco i circa 650 mila che prendono più di 3.200 euro lordi.
Renzi, che si è presentato alla stampa insieme ai ministri dell’Economia, Pier Carlo Padoan, e del Lavoro, Giuliano Poletti, aveva già messo in conto le proteste di opposizioni e sindacati, tanto da replicare in via preventiva: «quando hanno deciso quelle norme, noi tre facevamo un altro lavoro. Il colmo è che chi ha approvato quei tagli venga ora a dirci di restituire tutto». E tra i bersagli di Renzi non poteva che esserci Silvio Berlusconi, Renato Brunetta, Maurizio Gasparri e i tanti di Forza Italia che allora approvarono le misure del governo Monti e oggi fanno fronte con Giorgia Meloni (FdI), pronta alla Class action contro il nuovo decreto di Renzi, o Matteo Salvini (Lega), che si vuole rivolgere invece alla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo. Duri, come già detto, anche i sindacati: «Le risposte del governo non corrispondono alle indicazioni della Consulta», è il parere di Romano Bellissima della Uil, mentre il segretario generale dello Spi-Cgil, Carla Cantone, sostiene che è arrivata «da Renzi una prima risposta, non la soluzione al problema». Risposta, comunque «inadeguata e insufficiente», secondo il segretario confederale della Cisl, Maurizio Petriccioli.
Il premier, oltre a negare ogni intento elettorale, come anche le voci di dissensi interni al governo sulla tempistica del decreto legge, ha spiegato di aver voluto dare subito un «messaggio forte ai nostri partner europei: in Italia non si scherza e non si gioca sulle pensioni». Messaggio che va anche «ai mercati internazionali e ai pensionati, e lo facciamo partendo da presupposti che la grande questione delle pensioni va affrontata». Nel decreto ci saranno anche altre norme previdenziali, come il pagamento delle pensioni il primo di ogni mese e la sterilizzazione degli effetti del pil negativo degli ultimi anni sul montante contributivo. Viene messo in bilancio anche 1 miliardo da destinare alla Cig in deroga per il 2015 (spostando le risorse dal fondo Jobs act al fondo ammortizzatori sociali) e il rifinanziamento per 70 milioni dei contratti di solidarietà. Con la legge di stabilità, invece ,arriveranno misure per garantire una maggiore flessibilità in uscita e «dare un po’ più di spazio» a chi vuole andare in pensione prima rinunciando a parte dell’assegno. (riproduzione riservata)