di Francesco Ninfole
La Bce si difende dalle accuse, arrivate soprattutto dalla Germania, di danneggiare i risparmiatori con i bassi tassi di interesse. Dopo i tagli decisi negli ultimi anni dal Consiglio direttivo presieduto da Mario Draghi, motivati dalla recessione e dalla bassa inflazione, è diventato meno costoso per gli emittenti (come Stati o imprese) raccogliere risorse sui mercati.
Nello stesso tempo, però, i creditori possono guadagnare molto meno investendo e prestando denaro. Perciò in Germania si è alzato un putiferio. Ora la Bce ha fatto chiarezza sulla materia pubblicando uno studio di Ulrich Bindseil (che guida la divisione per le operazioni di mercato della Bce), Jörg Zeuner e Clemens Domnick (economisti di spicco della Kfw tedesca). L’analisi «dimostra che non è la banca centrale a determinare nel lungo periodo i rendimenti dei risparmi in termini reali, ossia al netto dell’inflazione», ha scritto la Bce in una sintesi della ricerca sul sito internet. Nel medio periodo, invece, «il tasso di rendimento sugli investimenti in termini reali dipende soprattutto da quanto sia innovativa e giovane l’economia, dalle condizioni delle strade e di altre infrastrutture, dalla flessibilità del mercato del lavoro e da quanto siano propizie alla crescita le politiche pubbliche. È l’economia reale che genera rendimenti reali». È quindi altrove che bisogna cercare i colpevoli dei bassi tassi reali, quelli che davvero contano per gli investitori (sia quelli retail che quelli di maggiori dimensioni, come le assicurazioni). Non c’è nessun «esproprio» a danno dei cittadini. La Bce può influire sui tassi reali «solo nel breve termine, uno o due anni»; un periodo che tuttavia «non è determinante per gran parte dei risparmiatori». E se anche la banca centrale potesse incidere sui tassi a lungo termine, resterebbero da considerare i vincoli del mandato della Bce, che impone di portare l’inflazione appena sotto il 2%.
L’analisi rileva inoltre che, se la Bce abbandonasse l’attuale politica sui tassi, gli effetti sarebbero controproducenti per l’economia reale e alla fine anche per gli investitori. Per dimostrarlo gli autori hanno citato proprio errate politiche monetarie della Germania: durante e dopo la Prima guerra mondiale la Deutsche Reichsbank ha mantenuto i tassi troppo bassi ed è scoppiata l’iperinflazione; all’inizio degli anni Trenta invece la Reichsbank ha alzato i tassi nonostante il crollo dell’economia e così ha aggravato la depressione. La conclusione è che «la politica monetaria non può indicare la via d’uscita dalla fase di debole crescita economica e, quindi, di tassi di interesse contenuti per i risparmiatori». (riproduzione riservata)