Giovanni Pons
E siste una via italiana alle public company? Forse sì se si osserva a ciò che sta accadendo in Generali e Telecom. Ma prima di fare paragoni irriguardosi conviene leggere come Vittorio Colao descriveva una vera public company come Vodafone in un intervento dell’ottobre 2013. «Come molte aziende anglosassoni siamo una telco a capitale diffuso; non abbiamo gruppi di controllo né azionisti di riferimento, e abbiamo una governance di tipo inglese (non di tipo americano, spesso vengono confuse), per cui le azioni sono tutte uguali: si contano e non si pesano. «C hi sono i nostri azionisti? I primi venti controllano il 30% del capitale, ed è importante notare che nessuno di questi siede in cda. Abbiamo 500 mila azionisti individuali; tutti i fondi ci possiedono; abbiamo tra gli azionisti fondi sovrani ma anche fondi longonly e hedge funds; abbiamo il pensionato come anche i risparmiatori ». Fatta questa doverosa premessa, si può osservare con la lente il germoglio che sta crescendo anche nella nostra penisola partendo da Trieste. All’ultima assemblea delle Assicurazioni Generali ha partecipato il 15,6% del capitale diffuso, quello cioè in mano a piccoli risparmiatori e fondi di investimento. La percentuale è in crescita rispetto alle ultime due assemblee e dimostra che anche il sistema finanziario italiano comincia a evolversi in direzione di una maggiore rappresentatività del mercato nelle grandi aziende quotate in Borsa. Da due anni a questa parte, cioè
da quando Mario Greco è stato catapultato dalla Zurich alla guida operativa del Leone in sostituzione di Giovanni Perissinotto, si è subito percepito uno stile di gestione più aperto al mercato e con l’obbiettivo preciso di aumentare la redditività della compagnia che stazionava al di sotto dei principali competitor internazionali. Con la sua strategia mirata Greco sta attirando nuovamente l’attenzione dei grandi investitori istituzionali che guardano a Generali come un caso di rilancio aziendale su cui puntare dei soldi. Il secondo messaggio importante lanciato dalla nuova gestione è stato quello di lasciarsi alle spalle la vecchia logica dei salotti finanziari, tipica del sistema finanziario imperniato intorno alla Mediobanca di Enrico Cuccia. Con la dismissione di qualsiasi partecipazione che facesse parte di patti di sindacato o strani intrecci societari che poco avevano a che fare con la profittabilità dell’azienda, Generali ha contribuito non poco a imprimere una svolta innovativa a tutto il sistema, esaltando i vantaggi della focalizzazione sui business tipici di una compagnia senza perdersi in diversificazioni o salvataggi che in quasi tutti i casi hanno portato a perdere soldi più che a guadagnarli. Tuttavia questa maggiore intonazione con il mercato della principale compagnia assicurativa italiana incontra ancora limiti importanti. Innanzitutto non si può prescindere dalla storica composizione dell’azionariato del Leone di Trieste. Negli anni in cui vigeva la legge di Cuccia, Mediobanca governava sulle Generali grazie a una partecipazione diretta che oscillava intorno al 15%, a cui si aggiungeva un altro 5% circa posseduto dalla finanziaria lussemburghese Euralux, con il supporto esterno di un altro 5% custodito nel fondo pensione della Banca d’Italia che in base a un tacito accordo nelle assemblee votava sempre insieme a Mediobanca. In questo modo il controllo della compagnia era blindato, la società non era scalabile e l’ingente portafoglio impieghi, pari a oltre 400 miliardi euro, veniva indirizzato all’occorrenza verso le partite finanziarie più delicate per la tenuta del sistema Italia e del potere della stessa Mediobanca. Oggi la situazione è molto diversa. Mediobanca sta progressivamente cambiando pelle uscendo a sua volta dai patti di sindacato e vendendo le partecipazioni considerate non più strategiche per la crescita futura della banca. Nel caso di Generali l’interessenza diretta è già scesa al 13% e nel piano industriale dell’ad di Mediobanca Alberto Nagel è previsto che scenda ulteriormente fino al 10%, probabilmente entro la fine del 2015. Inoltre al suo fianco non c’è più l’Euralux degli storici alleati francesi ma un gruppo di investitori privati che rispondono al nome di Leonardo Del Vecchio (3%), gruppo De Agostini (2,4%) e Francesco Gaetano Caltagirone (2,5%). Insieme a Mediobanca formano un nocciolo pari al 17-18% e alla scadenza dei consigli di amministrazione presentano una lista congiunta di maggioranza che risulta vincitrice anche senza aiuti esterni. Questi ultimi, tra l’altro, non possono più arrivare dalla Banca d’Italia in quanto il 4,5% di Generali da questa posseduta è stato trasferito alla fine del 2012 al Fondo Strategico Italiano controllato dalla Cassa Depositi e Prestiti. Con l’obbiettivo di riversare la quota sul mercato entro la fine del 2015 restituendo il ricavato alla Banca d’Italia che ridurrà la sua presenza nel Fondo dal 20% fino a un minimo del 5%. Operazione che risulta già in atto, avendo il Fsi fissato un prezzo a cui le azioni Generali in suo possesso saranno progressivamente cedute sul mercato. Detto questo l’ultimo pacchetto vagante rimarrà quell’1,5% in mano ai soci veneti della Ferak, di cui una parte è in coabitazione con la Fondazione Crt. Ma anche questa tranche di azioni, finita tra l’altro sotto i riflettori dello stesso Greco per la presenza di Generali tra i finanziatori degli imprenditori veneti, potrebbe essere dismessa non appena il prezzo del Leone raggiungerà certi livelli. Nella sostanza verso la fine dell’anno prossimo l’azionariato Generali potrebbe essere ancora più rarefatto, con un gruppo di investitori capitanati da Mediobanca poco sopra il 15% e niente altro. Di questo occorre però vedere anche il rovescio della medaglia. Basterà un nocciolo al 15% e una società condotta alla stregua di una public company e con un management forte a evitare scalate da parte di gruppi esteri del settore? Difficile dirlo poiché la classica difesa di una public company, come insegnano i casi di scuola, risiede nella sua grande capitalizzazione in grado di agire come deterrente. Tuttavia gli interessi per una delle principali compagnie assicurative mondiali come Generali potrebbe sorgere al di fuori della Ue, tra i fondi sovrani dei paesi emergenti non potendo Allianz e Axa crescere ulteriormente in Europa senza incappare nelle maglie dell’antitrust – dove i capitali non sono un problema. Quale potrebbe essere la reazione del sistema Italia a un’eventualità di questo tipo? Alzerà le barricate come ha fatto il governo francese con la Alstom? Difficile dirlo se non che lo schema di una public company all’italiana, con un nocciolo di azionisti al 15% e governance aperta alle minoranze potrebbe risultare la formula giusta per far crescere le aziende senza esporre il controllo ad azionisti sgraditi. Un percorso simile, anche se forse più accidentato, sta avvenendo per un’altra grande società quotata, Telecom Italia. La decisione di Mediobanca, Generali e Intesa Sanpaolo di uscire dalla scatola di controllo sta costringendo Telefonica, maggior socio con il 15%, a fare delle scelte decisive. E queste ormai non possono più andare contro gli azionisti di minoranza poiché per due assemblee consecutive il mercato ha fatto sentire forte la sua voce partecipando alle decisioni con una presenza mai vista in precedenza. Grazie alla pressione dei soci di minoranza, tra cui uno particolarmente attivo (Findim) con il 5% del capitale, sono stati creati comitati ad hoc per vigilare su eventuali operazioni con parti correlate e in conflitto di interessi. Il cda uscente ha studiato la corporate governance migliore per la società e ne ha consigliato l’utilizzo al nuovo consiglio che ha recepito in parte le raccomandazioni. Il presidente è stato eletto direttamente dall’assemblea e solo questa potrà revocarlo. Entro la fine dell’anno si realizzerà lo scioglimento della holding che racchiude la quota di controllo con i singoli pacchetti che verranno attribuiti ai soci. Basterà tutto ciò a fare di Telecom Italia una public company? Molto dipenderà dal comportamento del socio Telefonica con il 15% e dai suoi interessi futuri per la società italiana ma ancor di più dall’indipendenza del cda che si presume molto più elevata che in passato non essendovi al suo interno elementi che facciano diretto riferimento agli azionisti. Così come nella Vodafone di Colao. Nei grafici qui a lato, l’azionariato attuale delle Assicurazioni Generali e quello di Telecom Italia. Entrambi sono destinati a sostanziali modifiche entro la fine di quest’anno Nella foto sopra, l’ad delle Assicurazioni Generali Mario Greco