La grave crisi economica e occupazionale ha generato una situazione paradossale dove, al crescente bisogno di copertura sociale, corrisponde la riduzione di risorse a disposizione del welfare pubblico che impedisce al sistema di protezione sociale di assolvere al proprio compito. “E’ urgente procedere a una razionalizzazione delle poche risorse disponibili, pubbliche e private, organizzandole in maniera efficiente. Meno enti che svolgono attività parallele significa focalizzare l’attenzione sull’aspetto dei servizi e di risparmiare sulle inutili ridondanze di carattere amministrativo”, ha affermato Sergio Corbello, Presidente di Assoprevidenza in apertura del convegno “Welfare integrato: qualcosa di più di un’idea”, organizzato dall’Associazione Italiana per la Previdenza e Assistenza Complementare e il Laboratorio di ricerca “Percorsi di secondo welfare” nell’ambito della Giornata Nazionale della Previdenza 2014 in svolgimento a Milano.
Negli ultimi anni si è amplificato il dibattito circa la possibile trasformazione del modello di stato sociale nel Paese, nella convinzione che il welfare non debba essere considerato un costo ma come una risorsa in grado di contribuire, tramite lo sviluppo del benessere sociale, ad aumentare la ricchezza del Paese e ad agire come un volano per lo sviluppo, favorendo anche la creazione di occupazione.
Assoprevidenza ha avviato da tempo una riflessione sulla necessità di introdurre opportune modifiche all’attuale modello di welfare, al fine di superare le rigide separazioni operative e normative esistenti tra i comparti della previdenza e dell’assistenza sanitaria complementare, in modo da definire forme pensionistiche complementari che, con le necessarie separatezze, offrano anche prestazioni sanitarie integrative e il presidio dei rischi legati alla longevità e conseguente inabilità, tramite coperture di Ltc (Long Term Care), nell’ottica, per l’appunto di un welfare integrato. “Il punto di partenza – ha sottolineato Corbello – è la definizione di un modello complessivo di welfare integrato fondato su uno schema generale dotato di adeguata flessibilità, che sia in grado di adattarsi alle diverse situazioni. In questo quadro deve essere approfondito il ruolo che i vari attori coinvolti, sia pubblici sia privati, potranno sostenere nel prossimo futuro per la costruzione del nuovo sistema, con particolare riferimento da un lato alle parti sociali e dall’altro alla declinazione territoriale delle istituzioni pubbliche. Nella consapevolezza che, pur in assenza di un quadro normativo favorevole, sono ormai numerose le iniziative avviate nelle Regioni attraverso la realizzazione di efficaci forme di sinergia fra pubblico e privato”.
In molti paesi europei sono in corso sperimentazioni esterne al perimetro pubblico, con il coinvolgimento di una vasta gamma di soggetti, quali assicurazioni private e fondi di categoria, fondazioni e altri enti filantropici, il sistema delle imprese e i sindacati, associazioni ed enti locali.
Il primo Rapporto sul Secondo welfare
Dai risultati del Primo rapporto sul “Secondo welfare” – frutto della collaborazione fra soggetti pubblici, privati e non profit – illustrati nel corso del convegno di Assoprevidenza dalla curatrice della ricerca Franca Maino (Direttrice del Laboratorio sul Secondo welfare in Italia), emerge che in alcuni paesi europei il Secondo welfare ha già raggiunto importanti risultati, in particolare nei servizi per le famiglie e le persone. È nato un nuovo terziario sociale avanzato per soddisfare bisogni e domande non coperte nel campo della salute, dell’assistenza, dell’istruzione, delle attività culturali. I soggetti che operano in questi campi variano dalle micro-imprese giovanili alle emergenti multinazionali dei servizi, pronte a investire capitali.
La spesa sociale non pubblica, secondo l’Ocse, in Italia è pari al 2,1% del Pil, al di sotto di Svezia (2,8%), Francia e Germania (3,0%), Belgio (4,5%), Regno Unito (7,1%) e Olanda (8,3%). A differenza di altri Paesi, nell’ultimo decennio la nostra spesa privata è peraltro rimasta ferma. Esistono quindi ampi margini di crescita che potrebbero far affluire verso la sfera del welfare risorse per diversi miliardi di euro.
Il Terzo settore
I dati Istat sul Terzo settore mostrano che le istituzioni non profit attive in Italia erano circa 300.000 (dicembre 2011), dove operano oltre 5,7 milioni di persone, di cui 4,8 milioni volontari (83,3%), 681.000 dipendenti (11,9%). Prendendo in considerazione i soli dipendenti, il settore rappresenta attualmente il 3,4% della forza lavoro. Dal punto di vista del valore economico, il giro d’affari complessivo è stato stimato in circa 67 miliardi di euro, pari al 4,3% del Pil.
Le imprese, le assicurazioni, i Comuni
Oltre l’80% delle imprese con più di 500 dipendenti ha avviato iniziative di welfare aziendale e contrattuale. In Italia ci sono più di 500 fondi integrativi negoziali e volontari e circa 2.000 mutue sanitarie, molte delle quali nate dalla contrattazione collettiva di grandi categorie di lavoratori dipendenti; si autofinanziano per oltre 4 miliardi di euro prestando servizi a più di 5 milioni di persone. Vi sono tuttavia ampi margini di crescita: la spesa sanitaria privata a carico delle famiglie, cosiddetta out of pocket, si aggira fra il 25 e il 30% della spesa sanitaria complessiva, mentre oggi meno del 4% è intermediata dalle assicurazioni e il 14% circa dalle organizzazioni mutualistiche non profit. Molti Comuni, infine, anziché indietreggiare di fronte alla crisi hanno avviato percorsi di rinnovamento. Si sono combattuti gli sprechi, si sono ripensati gli interventi e le loro forme di governance, rafforzando la tutela dei rischi derivanti dalla crisi, ovvero sul lavoro e sulle povertà.