di Roberto Ruozi
Gli altissimi compensi percepiti dai massimi dirigenti delle grandi imprese, specialmente di quelle bancarie, sono stati considerati responsabili in misura non trascurabile della crisi che ci tormenta dal 2007 e in quanto tali sono stati oggetto di critiche feroci da parte del mondo politico e dell’opinione pubblica. Molti governi hanno introdotto dei meccanismi normativi nel tentativo di ridimensionare il fenomeno e, allo scopo, hanno anche imposto alle società (e in particolare a quelle quotate nonché a quelle bancarie e assicurative) di seguire, per la determinazione dei suddetti compensi, delle precise strade istituzionali, che coinvolgano sia il consiglio di amministrazione sia i membri indipendenti nonché il comitato per le rimunerazioni istituito al loro interno e, infine, la stessa assemblea degli azionisti. Si è voluto in questo modo responsabilizzare i principali organi delle società in questione e assicurare la massima trasparenza e pubblicizzazione delle decisioni adottate in materia. Uno sviluppo del genere ha interessato anche il nostro Paese, dove in verità il problema, benché presente, non ha mai assunto le dimensioni raggiunte altrove. L’iter decisionale imposto dai legislatori o dai regolatori è stato accolto con favore in linea di principio, ma ha lasciato perplessi sulle possibilità di raggiungere gli obiettivi fissati. In particolare, si è dubitato della qualità delle informazioni che i consigli di amministrazione avrebbero trasmesso alle assemblee e delle reazioni di queste ultime. L’esperienza delle assemblee svoltesi nello scorso mese di aprile ha dissipato quei dubbi e, almeno in linea di principio, gli obiettivi delle regole suddette sono stati centrati. Invece c’è meno ottimismo circa gli effetti pratici delle decisioni delle suddette assemblee, sia perché in diversi casi il voto assembleare nelle materie in esame ha solo valore consultivo, sia perché c’è il timore che tali decisioni possano essere presto dimenticate e che tutto possa ricominciare esattamente come prima. In realtà, tuttavia, le esperienze vissute non sono affatto trascurabili. A puro titolo di esempio ricordo che in molte banche (come Royal Bank of Scotland, Citigroup, Barclays, Ubs e Crédit Suisse) ma anche in società di altro genere (come Chesapeake, colosso americano dell’energia, Aviva, importante gruppo assicurativo, Glaxo Smith Kline, Astra Zeneca, Xstrata, Royal Dutch Shell, Igt, Kb Home, Trinity Mirror, Immarsat e la stessa Borsa di New York) le assemblee sono state particolarmente vivaci e in non pochi casi hanno espresso maggioranze contrarie alle proposte dei consigli di amministrazione. I massimi esponenti di tali società hanno preso atto con palese imbarazzo delle decisioni delle rispettive assemblee, chiedendo scusa agli azionisti per non aver saputo interpretare i loro sentimenti e assicurandoli comunque che questi ultimi sarebbero stati prossimamente tenuti nella dovuta considerazione. Alcuni di loro hanno immediatamente comunicato la rinuncia ai compensi (soprattutto quelli variabili, che sono stati oggetto delle critiche più accese) proposti all’assemblea e bocciati da quest’ultima. In altri casi, di fronte alle delibere assembleari contrarie alle proposte dei manager/amministratori, questi hanno rassegnato le dimissioni. Quasi tutti i presidenti di tali assemblee hanno promesso che l’anno prossimo porteranno al giudizio degli azionisti nuovi programmi e nuove politiche di remunerazione che possano avere sorte migliore di quella avuta nelle ultime settimane. Cosa poi accadrà nella pratica è difficile dire. Una cosa è certa, cioè che d’ora in poi il problema sarà più serio che nel passato e non potrà più essere trattato alla chetichella come fatto finora. Ciò è importante perché impone una valutazione pubblica delle politiche di compensazione dei massimi esponenti delle società, che non saranno più liberi come prima. In questo senso segnalo alcune dichiarazioni di eminenti personalità politiche che, di fronte ai fatti esposti, hanno promesso di darsi da fare per rendere vincolanti le delibere assembleari appena citate. In generale, poi, d’ora in avanti l’attività dei comitati per le remunerazioni, istituiti anche in Italia all’interno dei consigli di amministrazione, avranno un compito più delicato, e dovranno lavorare più intensamente. Si capirà che si tratta di un fenomeno la cui importanza va al di là dell’impatto che le remunerazioni dei vertici aziendali hanno sul conto economico delle società? Capiranno gli interessati che, nell’ambito degli obiettivi del loro lavoro quotidiano, il denaro è importante, ma che ce ne possono (sarebbe meglio dire devono) essere altri che meritano una considerazione, anche esplicita, maggiore di quella finora attribuita loro? Riuscirà tutto questo a riabilitare l’etica nei loro comportamenti? È possibile che, di conseguenza, gli stakeholder delle loro aziende possano avere in queste ultime una maggiore fiducia e che questo possa riflettersi favorevolmente anche sui relativi corsi di borsa? Non sono così ingenuo da pensare che a tutte queste domande sia possibile dare una risposta positiva, ma credo che un importante passo in avanti sia stato compiuto. E l’Italia? Come ho prima accennato, anche le assemblee delle nostre società sono state chiamate a esprimersi sulla politica di remunerazione dei massimi esponenti aziendali. Il clima è stato migliore di quelle delle assemblee delle società prima citate. A parte il voto contrario di qualche disturbatore, portatore di pochissime azioni e spesso neppure presente in assemblea, gli azionisti hanno generalmente approvato a larghissima maggioranza o addirittura all’unanimità le proposte dei consigli di amministrazione. Le motivazioni di questo favorevole atteggiamento sono molteplici. Da un lato c’è la già ricordata moderazione che ha tradizionalmente ispirato le politiche di assegnazione dei compensi ai massimi dirigenti delle società italiane, che hanno archiviato anche gli eccessi a volte irragionevolmente compiuti e che non sono più ripetibili. Dall’altro lato c’è la struttura della maggioranza delle nostre società, che è differente da quella delle grandi multinazionali. Da noi c’è una concentrazione molto maggiore dell’azionariato. Anzi, spesso la maggioranza assembleare è nelle mani di una sola persona o una sola famiglia. Le più importanti decisioni (e proposte) aziendali vengono quindi, almeno informalmente, quasi sempre condivise con l’azionista di maggioranza. I consigli di amministrazione le valutano ed esprimono liberamente le loro opinioni, ma quando le proposte sono ragionevoli sono solitamente condivise e fatte proprie, anche perché si presume possano incontrare facilmente il favore delle assemblee alle quali saranno sottoposte. In questo senso, salvo complicazioni, il consenso è facile da ottenere, ed è pressoché impossibile che, come per esempio è accaduto alla Royal Bank of Scotland, i voti contrari superino il 90%. In generale, tuttavia, si è aperto un nuovo capitolo nella storia del comportamento degli azionisti. Questo vale soprattutto per le società ad azionariato diffuso in cui nessun azionista può entrare nella gestione quotidiana. La politica di remunerazione dei vertici aziendali non deve però essere considerata come ordinaria amministrazione e sarà d’ora in avanti un elemento chiave dell’immagine aziendale e, quindi, anche delle relazioni con gli stakeholder e il mercato finanziario. Quanto agli azionisti, essi non sono diventati dei rivoluzionari, anche se il mondo dei media ha subito parlato di una
loro «primavera», parafrasando le tante primavere arabe a cui abbiamo via via assistito. Essi si sono semplicemente resi conto che è un loro sacrosanto diritto assicurarsi che le rimunerazioni dei massimi esponenti aziendali, contrariamente a quanto accaduto nel passato, siano ragionevolmente allineate alla qualità del loro lavoro, ai risultati prodotti sul conto economico delle loro società e alle performance in borsa delle relative azioni. È questo un atteggiamento rivoluzionario o una semplice applicazione del buon senso? (riproduzione riservata)