Massimiliano Di Pace
Roma All’insegna del risparmio, come tutte le riforme pensionistiche, quella del governo Monti, contenuta nel decreto Salva Italia di dicembre 2011 ha riguardato sia quel terzo degli attuali 16,7 milioni di pensionati che prende più di 1.400 euro di pensione, sia i circa 25 milioni di futuri pensionati, ossia coloro che hanno aperta una posizione contributiva (in sostanza i 23 milioni di occupati, ed i 2 milioni di disoccupati). Infatti, il decreto ha previsto da una parte il blocco dell’adeguamento all’inflazione per il biennio 2012-13 delle pensioni superiori a 1.400 euro lordi al mese (circostanza che causò le lacrime del Ministro Fornero), e dall’altra una ulteriore stretta ai requisiti per l’accesso alla pensione. In sostanza, dal 1° gennaio 2012 non vi è più la pensione di anzianità, che è stata sostituita da un trattamento pensionistico anticipato, che si può ottenere con 42 anni e 1 mese per gli uomini, e 41 e 1 mese per le donne. Queste età saranno per di più soggette ad aggiornamento triennale per effetto dell’eventuale incremento della durata media della vita (per cui in futuro potrà succedere che l’età diventi 42 anni e 3 mesi). Per accedere alla pensione di vecchiaia resta invece fermo il principio che occorre avere almeno 20 anni di contribuzione, mentre l’età per poter diventare pensionato è ora aumentata a 66 anni per tutti, salvo per le donne che lavorano nel settore privato (62 anni), e le lavoratrici
autonome (anche quelle iscritte alla gestione separata) per le quali l’età è 63 anni e 3 mesi. Comunque, anche queste categorie convergeranno gradualmente all’età di 66 anni. Un’altra novità della riforma (questa positiva per chi va in pensione) è stata l’eliminazione delle cosiddette finestre, per cui ora non bisogna più attendere un determinato periodo di tempo per poter incassare effettivamente l’assegno. Tutto questo, nelle intenzioni del governo Monti, sancite dalla relazione tecnica che accompagnava il decreto Salva Italia, ha la finalità di ridurre la spesa pubblica per un importo di circa 3 miliardi nel 2012 e 6 nel 2013 per la mancata indicizzazione, mentre per il restringimento dei requisiti la riforma porta in realtà ad un aggravio per i conti pubblici di circa 200 milioni di euro nel 2012, per via dell’abrogazione delle finestre, per diventare poi un risparmio di 800 milioni nel 2013, e di oltre 3 miliardi nel 2014, per arrivare a 6,5 miliardi nel 2015. Va detto che questi importi, che pur hanno causato tante polemiche e confronto politico, in realtà sono delle gocce nel mare magno della spesa previdenziale. Basti considerare che, secondo gli ultimi dati Istat, la spesa pensionistica del 2010 è stata di 258,5 miliardi, in crescita di 5 miliardi in un solo anno (erano 253,6 nel 2009). Se poi si guarda il dato complessivo delle risorse destinate alle prestazioni sociali, ci si rende conto che esse non solo costituiscono la principale voce della spesa pubblica, rappresentando nel 2010, con i suoi 298,2 miliardi, il 37,6% di tutte le uscite dello Stato, ma anche quella che cresce di più. Infatti, nel 2005 la spesa sociale era di soli 242,3 miliardi ovvero il 34,9% della spesa pubblica complessiva, e il ritmo di aumento è stato di 10 miliardi l’anno. Il presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua Resterà alla guida dell’istituto fino al 2014 e gestirà la fusione con Inpdap ed Enpals Il ministro del Welfare Elsa Fornero