Un italiano su quattro sperimenta la povertà. Così ieri è stato presentato il rapporto annuale dell’Istat sulla situazione del paese nel 2010. Dalle 416 pagine dell’analisi dell’Istituto nazionale di statistica è stato estrapolato un numero arrivando alla conclusione che l’Italia sta scivolando praticamente nella miseria.
Eppure, soffermandosi sulle dieci pagine delle 416 del rapporto che hanno attirato le maggiori attenzioni, se il dato viene contestualizzato, storicizzato e comparato, come fa la stessa ricerca dell’Istituto nazionale di statistica presieduto da Enrico Giovannini, i numeri assumono un’altra, diversa, connotazione.
Non c’è dubbio che «in termini percentuali in Italia, nel 2009, considerando i redditi disponibili per le famiglie a seguito dei trasferimenti sociali (che, nel nostro paese, consistono quasi totalmente nei trasferimenti pensionistici), quasi un quinto della popolazione residente (il 18,4 per cento) risulta a rischio di povertà».
Ecco la frase clou.
Il valore osservato, aggiungono i ricercatori dell’Istat, è più elevato della media europea, sia essa calcolata sui paesi dell’area euro (15,9 per cento), sia essa calcolata sull’Unione a 27 (16,3 per cento)».
Ma livelli simili a quello italiano caratterizzano Grecia (19,7 per cento), Spagna (19,5 per cento), Portogallo (17,9 per cento) e Polonia (17,1 per cento).
Mal comune mezzo gaudio? No. Perché proprio «questi quattro paesi», aggiunge il rapporto, «mostrano valori di reddito medio e mediano inferiori a quelli registrati in Italia, la quale è caratterizzata da un valore superiore a quello medio dell’Unione a 27 e prossimo a quello medio dei 17 paesi dell’area euro».
Inoltre, come rimarcano i ricercatori Istat in una nota a pie’ di pagina, «se si considerano le variazioni su più anni, tra il 2007 e il 2009 si osserva una diminuzione significativa del rischio di povertà».
Insomma, la discesa verso la povertà assume altri connotati se si guarda una tabella del rapporto Istat: quella che confronta la situazione degli Stati dal 2005 al 2009.
Ebbene la percentuale di popolazione di famiglie a rischio povertà dopo i trasferimenti sociali negli ultimi quattro anni in Italia è calata e non aumentata: infatti era del 18,9 per cento nel 2005 ed è diventata del 18,4 per cento nel 2009. Invece in Francia la percentuale è rimasta pressoché stabile al 13 per cento e in Germania è addirittura cresciuta, passando da 12,2 al 15,5 per cento.
Stessa tendenza si riscontra per un altro indicatore usato dall’Istat, quello della «popolazione in famiglie a rischio di povertà o esclusione».
Il dato italiano (24,7) ha fatto sensazione, eppure è di poco superiore alla media dei 27 Paesi dell’Unione ed è in leggero calo rispetto al 2005, quando fece segnare quota 25 per cento. Non solo: in Germania il dato è cresciuto dal 18,4 per cento del 2005 al 20 per cento del 2009.
Anche nell’analisi di un terzo indicatore di povertà i dati singoli sono meno sensazionali se sono confrontati. Secondo l’Istat, un elevato valore dell’indicatore di «rischio di povertà» associato a un ridotto valore per quello di «grave deprivazione» indica una marcata disuguaglianza nella distribuzione del reddito ma standard di vita accettabili anche per i più poveri. È questo il caso di Estonia, Spagna e Regno Unito, ma anche dell’Italia, dove nel 2009 le persone «gravemente deprivate» sono circa il 7 per cento, valore questo superiore alla media dei paesi dell’area euro, 5,6 per cento, ma inferiore a quello calcolato sull’Unione a 27 (8,1 per cento).
Infine, l’indicatore «di esclusione dal mercato del lavoro» mostra che in Italia, nel 2009, quasi il 9 per cento delle persone di età inferiore ai 60 anni (il 6,6 per cento del totale della popolazione) vive in una famiglia a intensità lavorativa molto bassa; il dato «è prossimo alle medie europee (8,9 e 9,0 per cento rispettivamente per l’area dell’euro e i 27 dell’Unione)». Valori simili a quello italiano si osservano in Danimarca (8,5 per cento), Malta (8,4 per cento), Francia e Paesi Bassi (8,3 per cento).