Nei suoi rilievi su Cape Natixis sgr, Via Nazionale critica alcune prassi consolidate del settore. Grande attenzione ai conflitti di interesse tra investitori e fondi. Non vietati di per sé, ma che vanno ben gestiti. 

di Stefania Peveraro

La decisione della Banca d’Italia di mettere Cape Natixis sgr in amministrazione straordinaria lo scorso marzo è stata storica per il private equity italiano. Non era mai accaduto prima che una sgr del settore fosse commissariata. Ma indipendentemente dagli errori commessi dal presidente della sgr, Simone Cimino, la lettura delle motivazioni addotte da Bankitalia per chiedere lo scioglimento degli organi con funzioni di amministrazione e controllo della società di gestione solleva dei grossi punti interrogativi sull’opportunità di condurre l’attività di private equity in Italia utilizzando la forma della sgr, che in quanto soggetto vigilato deve sottostare a tutta una serie di obblighi a volte in contrasto le prassi tipiche del private equity. «Effettivamente, stante la normativa attuale, riscontriamo che molti intermediari preferiscono utilizzare holding di diritto italiano oppure un Sif o Sicar lussemburghesi», dice Francesca Bressani Doldi, amministratore delegato di TMF Compliance Italy, specializzata in governance e compliance per intermediari finanziari e fondi.

E il futuro potrebbe essere anche più complesso.

La buona notizia per il settore del private equity è che la consultazione pubblica del Ministero dell’Economia in tema di disciplina dei fondi comuni si è incagliata. Spiega infatti Bressani Doldi: «Il Decreto sviluppo approvato dal governo lo scorso 5 maggio abolisce il 2° comma dell’articolo 32 del Decreto Legge n. 78/2010, cancellando quindi l’attribuzione al ministero dell’Economia del compito di determinare i criteri generali cui devono uniformarsi i fondi».

Il che è un bene per il settore del private equity, dice ancora l’ad di TMF Compliance, visto che, «sebbene le norme in questione siano state previste per arginare il fenomeno dei fondi immobiliari a ristretta base partecipativa, costituiti a fini di elusione fiscale, nella bozza di Regolamento non è specificato da nessuna parte che questo principio si applichi solo ai fondi immobiliari. Così il Regolamento, che imporrebbe il requisito della pluralità dei partecipanti, oltre ad avere effetti retroattivi, coinvolgerebbe anche altri tipi di fondi, private equity compresi, e le relative sgr, che per mettersi in regola potrebbero arrivare alla liquidazione dei fondi». Si domanda infatti l’avvocato Silvio Cavallo dello studio legale Capolino Perlingieri & Leone: «Cosa succede se in un fondo che rispetta il requisito della pluralità alcuni dei partecipanti vanno poi in default? Se l’accrescimento della partecipazione degli altri investitori è impedita dalle regole sulla pluralità, quale altra strada può percorrere il gestore, se non liquidare il fondo?».

Ma c’è anche una notizia cattiva. Secondo Anna Gervasoni, direttore generale dell’Aifi, «non si può escludere che permanga la facoltà generale del ministero di disciplinare in via attuativa le novità del 1° comma di quello stesso art. 32, che non è stato cancellato dal Decreto Sviluppo, e che modificava la definizione di fondo comune nel Testo Unico della Finanza, introducendo il requisito della pluralità dei soggetti investitori del fondo. Tale prerogativa infatti è prevista dall’art. 37 dello stesso TUF. Ma si tratta di un potere che il ministero potrà decidere di esercitare nei tempi e nei modi che riterrà più idonei».

 

Il conflitto di interesse. Sempre la bozza di Regolamento del Tesoro vietava il coinvolgimento dei sottoscrittori alle decisioni del fondo stesso, sulla falsariga di quanto previsto in tema di conflitti di interesse dalla Banca d’Italia. Non a caso tra i rilievi a Cape Natixis sgr, l’organo di vigilanza sottolinea che «la ricorrente coincidenza di ruoli tra quotisti, componenti del Comitato strategico dei fondi, manager delle partecipate e coinvestitori degli Oicr è all’origine di operazioni in potenziale conflitto d’interesse» e ricorda che «tale tematica riguarda anche il Presidente (Cimino, ndr) che risulta titolare di una interessenza del 4% nella controllante della sgr». D’altra parte, commenta l’avvocato Cavallo, «a livello internazionale sta emergendo un nuovo modello di private equity, caratterizzato da un maggiore coinvolgimento degli investitori (limited partner) nella vita del fondo, attraverso una loro più attiva partecipazione negli advisory board e un più serrato controllo sui flussi informativi. Poteva non essere facile conciliare tale tendenza con la bozza di regolamento sui fondi comuni di investimento, che stabiliva che i partecipanti non possono influenzare in alcun modo la gestione operativa del fondo». Spiega Bressani Doldi: «L’operazione in conflitto di interessi non è vietata, ma deve essere gestita. Cioè sono necessari processi trasparenti di preventiva approvazione delle varie decisioni. E quando si evidenzia un conflitto di interesse tra gestore del fondo, investitori e/o società target, il conflitto va portato all’attenzione del Comitato di investimento e poi del cda, oltre che degli organi di controllo. E se il soggetto in conflitto è nel Comitato o nel cda, quel soggetto si deve astenere dal voto».

L’antiriciclaggio. L’altro tema è quello dell’identità degli investitori. Banca d’Italia a proposito di CapeNatixis sgr ha rilevato che «le verifiche condotte in merito al rispetto della normativa antiriciclaggio hanno fatto emergere l’incompletezza dei riscontri fatti per l’adeguata verifica della clientela e la mancata identificazione, per un numero non marginale di sottoscrittori (es. sette fondi di fondi esteri, ndr) del titolare effettivo dei rapporti». Ma, ricorda l’ad di Tmf Compliance Italy, «l’obbligo di conoscere chi siano gli investitori è previsto a livello europeo, quindi per qualunque soggetto vigilato è impossibile transigere. Una soluzione adottata da alcuni nostri clienti è chiedere agli investitori schermati da fiduciarie di rendere trasparente la loro identità ai soli responsabili dell’antiriciclaggio delle sgr, preservando il più possibile, rispettando la legge, la riservatezza».

 

Due diligence reputazionale Negli ultimi tempi c’è stato un giro di vite nella normativa anglosassone in tema di corruzione e truffa, prima negli Usa con l’estensione ai fondi di private equity del raggio d’azione del Foreign corrupt practices act (Fcpa) e più di recente nel Regno Unito con il Bribery Act, in vigore dal prossimo luglio. «Queste norme riguardano anche tutte le controllate delle partecipate dai fondi, indipendentemente dal Paese in cui abbiano sede legale e, nel caso della norma britannica, i fondi sono responsabili per l’operato di qualsiasi dipendente, consulente o agente con cui intrattengono rapporti», sottolinea Nicoletta Grilli, che, dopo essersi occupata in Kroll di investigazione finanziaria a livello internazionale, ha fondato la società di business intelligence Corporate Risk Watch. Ha spiegato ancora Grilli: «Un fondo italiano che abbia in portafoglio una società britannica, o comunque attiva nel Regno Unito, ricadrebbe sotto questa medesima normativa. Diventa pertanto cruciale effettuare due diligence reputazionali o due diligence investigative sull’affidabilità e integrità dei soggetti coinvolti». Un servizio che CRW ha già condotto per alcuni fondi di private equity italiani. Ma anche dal punto di vista degli investitori la due diligence reputazionale può essere conveniente. Sottolinea ancora Grilli, «la due diligence dovrebbe riguardare l’sgr o la management company (se di diritto estero) che gestiscono il fondo nel quale si vuole investire, visti i problemi in cui le sgr possono incorrere se non rispettano le norme in tema di conflitto di interesse, pluralità degli investitori o antiriciclaggio oppure nel caso in cui le management company estere non rispettino le norme del Bribery Act o dell’Fcpa. Gli investitori eviterebbero quindi conseguenze gravi per il loro portafoglio». (riproduzione riservata)