Rendita, questa sconosciuta. Sarà perché la pensione per molti iscritti ai fondi è ancora lontana, fatto sta che oggi in Italia il tema di come convertire il capitale accumulato in un assegno periodico è ignorato da molti lavoratori. Eppure la questione prima o poi si porrà perché la normativa prevede che chi ha iniziato a lavorare dopo l’aprile 1993 al momento del pensionamento potrà prelevare sotto forma di capitale non più del 50% del montante. L’altra parte deve essere quindi convertita in rendita (è solo possibile riscattare l’intero montante sotto forma di capitale in caso di pensioni esigue). Senza dimenticare che dopo i vari tagli alla previdenza pubblica la pensione integrativa è destinata a rappresentare una fetta sempre più importante della ricchezza pensionistica. Ecco perché «il problema della realizzazione di un articolato e concorrenziale mercato delle rendite vitalizie diventerà sempre più urgente al crescere della domanda», afferma il presidente Covip, Antonio Finocchiaro. Proprio al tema è dedicato uno studio di tre analisti della Banca d’Italia (Giuseppe Cappelletti, Giovanni Guazzarotti e Pietro Tommasino) che stima la domanda di rendite vitalizie in Italia e ne analizza le determinanti, usando i dati dell’Indagine sui bilanci delle famiglie del 2008. «La rendita vitalizia, o annuity, è uno strumento che consente ai risparmiatori di convertire un capitale in un flusso periodico di pagamenti che cessa solo con la morte dell’assicurato. Mediante la rendita i risparmiatori possono trasferire a una controparte specializzata il rischio finanziario connesso con l’incertezza della durata della loro vita», spiegano i tre ricercatori. «Ai capofamiglia è stato chiesto se accetterebbero, al pensionamento, di rinunciare a una rendita vitalizia in cambio di una somma di denaro immediatamente disponibile. L’analisi mostra che, in media, la propensione a convertire in rendita la propria ricchezza al momento del pensionamento in Italia è potenzialmente elevata», sottolineano i tre studiosi.
In particolare, l’82% preferirebbe una rendita di 1.000 euro al mese a un capitale di 60 mila euro. Ma alzando il capitale a 80 mila euro la percentuale scende al 69% e con 100 mila euro la quota scende al 40%. «I risultati suggeriscono tuttavia che la domanda di rendite vitalizie diminuisce sensibilmente al ridursi della ricchezza, del livello di istruzione e del grado di comprensione di argomenti finanziari. Per le categorie più svantaggiate è probabile che, date le loro scarse competenze finanziarie e la presenza di vincoli di liquidità, la frazione di ricchezza trasformata in rendita risulti particolarmente bassa e inferiore a quella ottimale», avvertono i tre ricercatori. «Ciò suggerisce la desiderabilità di interventi a favore di tali lavoratori. Potrebbero essere potenziati programmi per accrescere le competenze in tema di risparmio pensionistico».
Non solo. Interventi sono necessari anche sui costi. «Potrebbe inoltre essere opportuno favorire il contenimento dei prezzi delle rendite finanziarie attraverso una maggiore competizione e con interventi volti a facilitare la gestione del rischio di longevità da parte delle compagnie», concludono i tre ricercatori.