NORMATIVA
Autore: Marco Rossetti
ASSINEWS 373 – Aprile 2025
Col d.m. 18/25 si completa il quadro d’una legge opportuna ed attesa, che tuttavia consegna agli interpreti alcune incertezze
1. Un nuovo obbligo assicurativo
La l. 30 dicembre 2023, n. 213 (legge di bilancio) all’art. 1, commi da 101 a 112, ha introdotto l’obbligo per le imprese commerciali con sede od organizzazione in Italia di stipulare un’assicurazione contro i danni derivanti da calamità naturali. In origine era previsto che tale obbligo fosse adempiuto entro il 31 dicembre 2024, ma si sa che il nostro è il Paese del mañana, ed anche l’obbligo assicurativo contro le calamità non è sfuggito alla logica ferrea del rinvio: infatti, il suddetto termine è stato differito al 31 marzo 2025 dall’art. 13, comma 1, del d.l. 27 dicembre 2024, n. 202 (convertito, con modificazioni, dalla l. 21 febbraio 2025, n. 15).
Infine, il quadro normativo è stato completato dal d.m. 30 gennaio 2025 n. 18, emanato in attuazione della delega contenuta nell’art. 1, comma 105, della citata l. 213/23 (pubblicato sulla Gazzetta ufficiale 27 febbraio 2025, n. 48).
Legge (213/23), decreto correttivo (202/24) e decreto ministeriale (18/25) costituiscono dunque i tre elementi che compongono il quadro normativo di riferimento per questo nuovo obbligo assicurativo. Ed ora che il quadro è ultimato, possiamo finalmente sederci a contemplarlo: proverò a farlo nel presente scritto, beninteso soffermandomi solo sugli elementi più rilevanti per il diritto civile, e dunque: a) i soggetti dell’obbligo; b) il rischio assicurato; c) i patti contrattuali minimi inderogabili.
2. I soggetti
L’obbligo di assicurazione contro i danni da calamità naturali grava sulle imprese commerciali che in Italia hanno la sede, oppure una stabile organizzazione.
La legge a dire il vero pone l’obbligo di assicurazione a carico delle “imprese commerciali obbligate all’iscrizione nel registro delle imprese ex art. 2188 c.c.”, ma poiché qualunque impresa commerciale è soggetta per ciò solo all’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese, la previsione normativa è tautologica.
Non importa dunque che si tratti di impresa individuale o società commerciale. Quel che rileva è che si tratti di un imprenditore commerciale con sede in Italia o, se avente sede all’estero, che abbia in Italia una “stabile organizzazione”. Una “stabile organizzazione”, secondo la giurisprudenza di legittimità, non è concetto definibile a priori. La presenza di essa si deve desumere caso per caso da indici sintomatici, tra i quali maggior rilievo avranno l’esistenza in Italia di basi operative, di lavoratori subordinati, di mezzi umani e tecnici per l’esercizio dell’impresa (Cass. 29.11.2022, n. 35138). Ai fini dell’assoggettamento all’imposta sul valore aggiunto, ad es., è stata ritenuta “stabile organizzazione” quella “caratterizzata da un grado sufficiente di permanenza e da una struttura idonea in termini di mezzi umani e tecnici atti a consentire di ricevere e utilizzare i servizi che le sono forniti per le proprie esigenze (…), a prescindere dal fatto che sia o meno dotata di personalità giuridica in Italia. (Cass. 5 agosto 2021, n. 22312).
Dunque saranno esclusi dall’obbligo assicurativo le società semplici (che non sono imprenditori commerciali); gli enti no-profit e le associazioni non riconosciute che non svolgano, anche di fatto, attività d’impresa; le società capogruppo aventi sede all’estero che svolgano in Italia una mera attività di controllo della holding.
Sono infine esclusi dall’obbligo, per espressa previsione di legge (art. 1, comma 111, l. 213/23) gli imprenditori agricoli. Si badi: imprenditore agricolo è non solo l’agricoltore o l’allevatore, ma anche chi esercita le attività di manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione dei prodotti dell’agricoltura o dell’allevamento, nonché “le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività agricola” (art. 2135, terzo comma, c.c.).
In pratica, l’obbligo di assicurazione non sussiste per la “filiera” della produzione e trasformazione in situ dei prodotti agroalimentari.
2.1.
Questa esclusione degli imprenditori agricoli dall’obbligo assicurativo non è casuale, né può ritenersi una disparità di trattamento. Per gli imprenditori agricoli infatti esiste già una disciplina ad hoc, che persegue l’obiettivo di allargare l’area dei rischi assicurati attraverso strumenti diversi dall’obbligo: l’accollo da parte dello Stato di una parte del premio dovuto all’agricoltore che intenda assicurarsi (art. 2 d. lgs. 29.3.2004 n. 102); le polizze parametriche (art. 2 bis d. lgs. 102/04, cit.); la riassicurazione da parte dello Stato dei rischi agricoli (art. 127, comma 3, l. 23.12.2000, n. 388).
2.2.
Conseguenza di quanto detto è che l’obbligo sorge con l’esercizio dell’attività d’impresa, e cessa con la perdita della qualifica di imprenditore commerciale. Dunque vi sarebbero soggetti anche gli imprenditori occulti o di fatto (che perciò cesseranno di essere occulti), mentre verrà meno con la cessazione (anche di fatto) dell’attività d’impresa. Nel caso di fallimento (io sono vecchio e per nostalgia continuerò a chiamarlo così, invece che “strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza” come vorrebbe il d. lgs. 12.1.2019 n. 14) l’obbligo permarrà se l’impresa continua ad essere esercitata; ove poi il danno si fosse già verificato, il relativo credito sarà acquisito all’attivo fallimentare.
3. L’oggetto della copertura assicurativa
L’art. 1, comma 101, l. 213/23 stabilisce che la polizza obbligatoria debba coprire “i danni ai beni di cui all’art. 2424, primo comma, sezione Attivo, voce B-II, numeri 1), 2) e 3), c.c., direttamente cagionati da calamità naturali ed eventi catastrofali verificatisi sul territorio nazionale”.
Cosa si cela dietro questo arcano rinvio? È presto detto: l’art. 2424 c.c. è la norma che detta i criteri di redazione dello stato patrimoniale delle società per azioni, ed alla voce B-II, nn. 1-3, stabilisce che nell’attivo patrimoniale debbano indicarsi:
1) i terreni ed i fabbricati;
2) gli impianti ed i macchinari;
3) le attrezzature industriali e commerciali.
L’art. 1, comma 1, lettera (b), del d.m. 18/25 ha ulteriormente dettagliato la previsione della legge, definendo cosa debba farsi rientrare in ciascuna delle tre categorie suddette, e cioè:
1) per “terreni” devono intendersi “i fondi o loro porzioni, con differenti caratteristiche geografiche in relazione alla posizione e alla loro conformazione”1;
2) per “fabbricato” deve intendersi “l’intera costruzione edile e tutte le opere murarie e di finitura, compresi fissi e infissi, opere di fondazione o interrate, impianti idrici ed igienici, impianti elettrici fissi, impianti di riscaldamento, impianti di condizionamento d’aria, impianti di segnalazione e comunicazione, ascensori, montacarichi, scale mobili, altri impianti o installazioni di pertinenza del fabbricato compresi cancelli, recinzioni, fognature nonché eventuali quote spettanti delle parti comuni”;
3) per “impianti e macchinari” devono intendersi “tutte le macchine anche elettroniche e a controllo numerico e qualsiasi tipo di impianto atto allo svolgimento dell’attività esercitata dall’assicurato”;
4) per “attrezzature industriali e commerciali” devono intendersi “macchine, attrezzi, utensili e relativi ricambi e basamenti, altri impianti non rientranti nella definizione di fabbricato, impianti e mezzi di sollevamento, pesa, nonché di imballaggio e trasporto non iscritti al P.R.A.”.
Ovviamente il rinvio della legge all’art. 2424 c.c. non deve intendersi nel senso che solo le società per azioni abbiano l’obbligo di assicurarsi. La prima parte della norma infatti è chiara nell’imporre l’obbligo agli imprenditori commerciali tutti, e non solo alle società, e tanto meno alle sole società per azioni.
L’obbligo dunque è molto ampio, e impone di assicurare contro i danni da calamità naturali sia gli immobili, sia i beni in essi contenuti.
Curiosamente, però, la legge non include nell’ob- bligo assicurativo la copertura dei rischi ai prodotti finiti o semilavorati, alle materie prime, alle scorte di magazzino. Da un lato, infatti, nessuno di tali beni può farsi rientrare nel concetto di “impianti”, “macchinari” o “attrezzature”; dall’altro essi rientrano nella previsione dell’art. 2424, primo comma, sezione Attivo, voce C-I, che non è richiamata dall’art. 1, comma 101, l. 213/23. Del pari restano esclusi dall’obbligo i danni ai veicoli, per espressa previsione dell’art. 1 d.m. 18/25. Ed anche questa esclusione detta perplessità, dal momento che per un’impresa che eserciti – poniamo – l’attività di scavo, oppure di recupero veicoli, od ancora di costruzioni edili, autocarri camion e betoniere costituiscono senz’altro “attrezzature” necessarie per lo svolgimento dell’attività d’impresa.
3.1.
Tutti i suddetti beni devono essere coperti da assicurazione contro i danni “direttamente” causati da calamità naturali. E c’è da scommetterci che l’avverbio “direttamente” farà versare fiumi d’inchiostro. La definizione investe infatti il problema della causalità, sul quale la giurisprudenza da secoli si tormenta. Così, ad es.: se la bufera abbatte la ciminiera dell’opificio confinante col mio, e questa crollando sfonda il tetto del mio capannone, il mio danno potrà ritenersi “direttamente causato” dalla bufera? Se un terremoto provoca un corto circuito, e questo a sua volta un incendio che si propaga all’immobile di mia proprietà, il mio danno sarà diretto od indiretto? A tali quesiti si può rispondere, con una larga dose di generalizzazione, ricordando che l’espressione “danni diretti” sia in campo assicurativo, sia in materia di responsabilità civile, ha conosciuto negli ultimi trent’anni un progressivo ad apparentemente inarrestabile ampliamento.
Già molti anni fa la Cass. 7.9.1984, n. 4786, in Assicurazioni, 1985, II, 2, 64, ritenne che dovesse ritenersi “conseguenza diretta” del furto d’un veicolo (poi ritrovato) il danno patito dall’assicurato e consistito nella fusione del motore, dovuto al fatto che l’assicurato, per evitare il furto, aveva provveduto a svuotare il radiatore dell’acqua. Ma anche in seguito l’espressione “danni immediati e diretti” di cui all’art. 1223 c.c. è stata sempre più allargata: ad esempio, vi sono stati ricompresi i danni non patrimoniali patiti dai congiunti della vittima di lesioni personali non mortali, oppure il danno da dimissioni volontarie del coniuge d’un macroleso, rassegnate per assistere il familiare invalido.
I danni “causati direttamente” dalla calamità devono dunque ritenersi tutti quelli che non si sarebbero verificati se non ci fosse stata l’alluvione o il terremoto, e sempre che l’insorgenza di essi non sia dovuta a un fattore sopravvenuto di per sé idoneo a produrli (c.d. criterio condizionalistico temperato, per l‘affermazione del quale si veda la nota sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione, n. 576 del 2008).
3.2.
La legge precisa che la copertura deve riguardare “i danni (…) cagionati da calamità naturali ed eventi catastrofali verificatisi sul territorio nazionale”.
Un legislatore in vena di burle ha voluto adottare una formula che rievoca il sibillino ibis, redibis, non morieris in bello: infatti, per come è costruita la frase, non si comprende se il complemento di stato in luogo “sul territorio nazionale” abbia per soggetto “i danni” oppure “gli eventi” calamitosi. Se si interpretasse la legge nel senso che il contratto deve coprire “i danni verificatisi sul territorio nazionale”, una società con sede in Italia, ma che fosse proprietaria di un capannone industriale in Romania, si potrebbe arrivare a sostenere che sia soggetta all’obbligo di assicurazione per coprire anche i danni a quest’ultimo, dal momento che il danno si verifica nel luogo in cui si producono le conseguenze dell’evento, e la perdita d’esercizio causata dal danno si verifica dove l’impresa ha sede, cioè in Italia.
Se invece si interpretasse la legge nel senso che il contratto deve coprire solo le calamità verificatesi in Italia, nell’esempio appena proposto l’impresa non avrebbe alcun obbligo di stipulare una polizza a copertura dei danni verificatisi ai propri beni e macchinari situati all’estero.
Credo che la soluzione preferibile sia la seconda: ratio della legge è infatti non già (o almeno non solo) quella di proteggere gli imprenditori, ma anche e soprattutto quella di ridurre gli enormi oneri di cui lo Stato in genere si fa carico in seguito a calamità naturali. Ratio ovviamente cessante, nel caso di danni a beni situati all’estero.
3.3.
Infine, va messo in evidenza che la legge impone l’assicurazione contro “i danni ai beni dell’impresa”, ma non impone l’assicurazione della responsabilità civile. La polizza non potrà pertanto essere invocata dall’assicurato per sottrarsi alle conseguenze di propri atti di negligenza, Esempio: un’impresa che esercita l’attività di depositeria per negligenza non adotta misure che avrebbero consentito di prevenire le conseguenze di una forte mareggiata, ed i beni a lei affidati vengono di conseguenza distrutti. Se quei beni appartenevano ad imprenditori, questi ultimi avranno diritto di essere indennizzati dal proprio assicuratore, ma tale copertura non potrà essere invocata dal depositario: esattamente come accade quando il vettore assicura la merce trasporta per conto di chi spetta.
3.4.
Anche se la polizza viene stipulata, il regolamento attuativo (art. 1, comma 2, d.m. 18/25) chiarisce che sono “esclusi dalla copertura assicurativa” i beni immobili “che risultino gravati da abuso edilizio o costruiti in carenza delle autorizzazioni previste ovvero gravati da abuso sorto successivamente alla data di costruzione”. L’inelegante espressione “gravati da abuso”2 non ne maschera il senso. I danni alle costruzioni realizzate in assenza o in difformità rispetto al permesso di costruire sono esclusi ope legis dai rischi oggetto del contratto.
Ma immaginiamo che esista un assicuratore disposto a coprirli ed un assicurato disposto a pagare il relativo premio, una clausola di questo tipo sarebbe valida o nulla?
Credo che per dare risposta a questo quesito non si debba ragionare in termini di validità/invalidità della clausola, ma in termini di esistenza del rischio, ex art. 1895 c.c..
Un immobile realizzato in assenza di permesso di costruire, oppure abusivamente modificato in modo non sanabile, è un bene incommerciabile. Può avere un valore d’uso, ma non ha un valore di scambio. Se non ha un valore di scambio è inesistente il rischio che venga distrutto. E se non c’è il rischio, il contratto è nullo (art. 1895 c.c.). Diversa è l’ipotesi in cui l’abuso sia sanabile: in questo caso il bene non è privo di valore, e dunque il rischio della sua distruzione è reale. E poiché la l. 213/23 non commina sanzioni di nullità, riterrei che non sia inibito all’assicuratore accettare di coprire questo tipo di rischi.
3.5.
La legge non ha preso in esame le vicende circolatorie dell’impresa: affitto d’azienda, cessione di ramo d’azienda, fusione o trasformazione di società. Tuttavia non ce n’era bisogno: l’assicurazione di cui si discorre è un contratto stipulato per l’esercizio dell’impresa, e dunque sarà una polizza ambulatoria, salvo patto diverso. Se l’azienda viene affittata o ceduta, l’affittuario o il cessionario beneficerà della copertura e diventerà l’assicurato, anche senza bisogno d’una previsione contrattuale in tal senso.
Se il contratto invece esclude espressamente la circolazione della polizza, nel caso di cessione dell’azienda o trasformazione della società sarà necessaria la stipula d’una nuova polizza da parte del cessionario, dell’incorporante o del soggetto sorto dalla trasformazione del tipo sociale.
4. Il rischio assicurato
I rischi da assicurare sono cinque: terremoti, alluvioni, frane, inondazioni e esondazioni (art. 1, comma 101, l. 213/23).
Essi sono così definiti dall’art. 3 d.m. 18/25:
- a) alluvione, inondazione ed esondazione: fuoriuscita d’acqua, anche con trasporto ovvero mobilitazione di sedimenti anche ad alta densità, dalle usuali sponde di corsi d’acqua, di bacini naturali o artificiali, dagli argini di corsi naturali e artificiali, da laghi e bacini, anche a carattere temporaneo, da reti di drenaggio artificiale, derivanti da eventi atmosferici naturali. Sono considerate come singolo evento le prosecuzioni di tali fenomeni entro le settantadue ore dalla prima manifestazione;
- b) sisma: sommovimento brusco e repentino della crosta terrestre dovuto a cause endogene, purché i beni assicurati si trovino in un’area individuata tra quelle interessate dal sisma nei provvedimenti assunti dalle autorità competenti, localizzati dalla Rete sismica nazionale dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (INGV) in relazione all’epicentro del sisma. Le scosse registrate nelle settantadue ore successive al primo evento che ha dato luogo al sinistro indennizzabile sono attribuite a uno stesso episodio e i relativi danni sono considerati singolo sinistro;
- c) frana: movimento, scivolamento o distacco rapido di roccia, detrito o terra lungo un versante o un intero rilievo sotto l’azione della gravità, scoscendimento di terre e rocce anche non derivate da infiltrazioni d’acqua. Sono considerate come singolo evento le prosecuzioni di tali fenomeni entro le settantadue ore dalla prima manifestazione.
4.1.
Sono tuttavia esclusi, per espressa previsione di legge (art. 1, comma 3, d.m. 18/25):
- a) i danni che sono conseguenza diretta del comportamento attivo dell’uomo o i danni a terzi provocati dai beni assicurati a seguito di eventi;
- b) i danni conseguenza diretta o indiretta di atti di conflitti armati, terrorismo, sabotaggio, tumulti;
- c) i danni relativi a energia nucleare, armi, sostanze radioattive, esplosive, chimiche o derivanti da inquinamento o contaminazione.
5. Il premio
L’art. 1, comma 104, l. 213/23, stabilisce che il contratto applichi “premi proporzionali al rischio”.
Trattasi di previsione irrilevante. Nel contratto di assicurazione il premio (puro) non può che essere “proporzionale al rischio”: si tratta d’uno dei princìpi basilari del contratto di assicurazione, che lo differenzia dalla scommessa e dalla fideiussione.
Inoltre, il modo in cui si debbano calcolare i premi e la necessità che siano “proporzionali ai rischi” è implicito nell’obbligo di gestire l’impresa in modo “sano e prudente” (art. 3 cod. ass.), ed imposto dall’art. 30 novies cod. ass.. Insomma, che il comma 104 dell’art. 1 l. 213/23 esista o non esista, nulla cambia nel mondo del diritto.
6. L’indennizzo
Della misura dell’indennizzo si occupano l’art. 1, comma 104, l. 213/23, e l’art. 6 d.m. 18/25.
Si tratta di previsioni non del tutto coordinate tra loro ed alquanto imperfette sul piano linguistico. La legge (art. 1, comma 104, l. 213/23) accomuna in un’unica previsione la disciplina di franchigie e scoperti, e impone che il contratto di assicurazione contro i danni da calamità naturali debba prevedere un “eventuale scoperto o franchigia non superiore al 15 per cento del danno”, se la somma assicurata è inferiore a 30 milioni di euro (art. 1, comma 104, l. 213/23).
Il decreto attuativo (d.m. 18/25) invece dedica una norma alla disciplina dello “scoperto” (art. 6) ed un’altra norma (art. 7) alla disciplina del “limite di indennizzo” (sic).
La prima di tali previsioni stabilisce, dettagliando ulteriormente la previsione della legge, che lo scoperto non può essere superiore al 15% se il valore dei beni assicurati è inferiore a 30 milioni di euro; se è superiore la misura dello scoperto “è rimessa alla libera negoziazione delle parti” (art. 6, comma 2).
La seconda previsione (art. 7) stabilisce che i contratti “possono prevedere, ove convenuto dalle parti” 3 i seguenti “limiti di indennizzo”:
“a) per la fascia fino a 1 milione di euro di somma assicurata trova applicazione un limite di indennizzo pari alla somma assicurata;
- b) per la fascia da 1 milione a 30 milioni di euro di somma assicurata trova applicazione un limite di indennizzo non inferiore al 70 per cento della somma assicurata”.
Vediamo ora come coordinare queste previsioni così eterogenee.
Iniziamo col rilevare che, sul piano della logica formale, dire che un contratto “deve” prevedere un “eventuale” scoperto equivale a dire che il contratto può prevederlo e può non prevederlo. La previsione di legge, insomma, è non dissimile dall’affermazione di chi dicesse “hai l’obbligo di parlare, ma solo se lo vuoi”. Si tratta dunque d’una norma dispositiva e non cogente, nel senso che:
-) il contratto può non prevedere né scoperti, né franchigie, ma
-) se li prevede, questi non debbono eccedere il 15% del danno indennizzabile se l’importo dei beni assicurati è inferiore a 30 milioni di euro.
Vediamo ora come debbano coordinarsi la legge (che impone, come s’è detto, un tetto massimo del 15% allo scoperto per i contratti di valore fino a 30 milioni), col regolamento di attuazione, che parrebbe prevedere qualcosa di diverso: un “limite di indennizzo” pari alla somma assicurata per i contratti di valore fino a 1 milione di euro, e non inferiore al 70% per i contratti di valore superiore.
Il problema sta nell’espressione “limite di indennizzo”, largamente diffusa nella prassi, ma assente nelle previsioni del codice civile. Con quell’espressione si designa comunemente l’importo massimo che l’assicuratore si obbliga a pagare nel caso di sinistro.
Ma trattasi di espressione ambigua, in quanto nell’assicurazione danni l’obbligo dell’assicuratore di pagare un indennizzo inferiore al valore del danno può dipendere:
a) dalla stipula d’una assicurazione parziale (art. 1907 c.c.);
b) dalla stipula d’una assicurazione a valore pieno, ma con previsione d’uno scoperto.
Le due ipotesi differiscono perché nell’assicurazione parziale si applica la regola proporzionale (se assicuro per 50 un immobile che vale 100 e si verifica un danno pari a 40, l’indennizzo dovuto sarà pari a 20); nell’assicurazione con scoperto no (se assicuro per 100 un immobile che vale 100 pattuendo uno scoperto di 10 e si verifica un danno pari a 40, l’indennizzo dovuto sarà pari a 30).
Riterrei che la balbuzie giuridica del legislatore debba essere sanata considerando che, mentre la legge all’art. 1, comma 104, disciplina lo scoperto (non più del 15%), l’art. 7 d.m. 18/25 disciplini invece la sottoassicurazione (o assicurazione proporzionale), vietando di stipulare contratti che coprano meno del 70% del valore della somma assicurata se questa eccede il milione di euro, ed imponendo l’assicurazione a valore pieno (art. 1908 c.c.) per i contratti di valore inferiore al milione di euro.
Qualunque diversa interpretazione porrebbe in conflitto la legge col decreto ministeriale di attuazione.
7. L’obbligo di contrattare
La l. 213/23 ha imposto un duplice obbligo: le imprese commerciali hanno l’obbligo di stipulare il contratto; le imprese assicuratrici hanno l’obbligo di accettare le proposte di assicurazione.
Questi due obblighi tuttavia sembrano essere stati “buttati là” senza alcun raccordo col quadro normativo preesistente. Ed ambedue porranno problemi agli interpreti.
Per quanto concerne l’obbligo di assicurarsi gravante sulle imprese commerciali, esso non è sanzionato. La legge infatti non prevede l’irrogazione di sanzioni in senso stretto. Il solo comma 102 dell’art. 1 l. 213/23 contiene l’ambigua previsione per cui “dell’inadempimento dell’obbligo di assicurazione (…) si deve tener conto nell’assegnazione di contributi, sovvenzioni o agevolazioni di carattere finanziario a valere su risorse pubbliche, anche con riferimento a quelle previste in occasione di eventi calamitosi e catastrofali”. Ma “tenere conto” dell’evasione dell’obbligo assicurativo è cosa ben diversa dal prevedere una vera e propria decadenza, per l’evasore, dal diritto a sussidi e sovvenzioni. In pratica, la norma è scritta in modo tale che la pubblica amministrazione potrà fare un po’ quel che vuole: anche all’evasore, in caso di calamità, potrà esser accordato il beneficio o la sovvenzione.
Assai più delicata è la previsione dell’obbligo di contrattare a carico delle imprese, sanzionato con la previsione d’una multa (da 100.000 a 500.000 euro: art. 1, comma 107, l. 213/23). L’obbligo di contrattare infatti costituisce una deroga al principio comunitario di libera concorrenza e di libertà di stabilimento. La compatibilità dell’obbligo di contrattare con l’ordinamento comunitario è stata già vagliata dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea, con riferimento alle previsioni dell’art. 132 cod. ass. in tema di assicurazione della r.c.a.. In quel caso, con sentenza 28.4.2009, in causa C-518/064, la Corte di Giustizia ritenne che l’art. 132 c. ass. non contrastasse col diritto dell’UE perché:
(a) è giustificato da un “interesse pubblico”, ravvisato nell’esigenza di far sì che la vittima di un sinistro stradale abbia sempre dinanzi a sé un’impresa assicuratrice cui domandare il risarcimento;
(b) il mezzo adottato per il perseguimento di tale interesse (l’obbligo di contrarre) non è sproporzionato rispetto al fine, perché se non esistesse molte imprese si ritirerebbero da zone del territorio italiano (le regioni meridionali) caratterizzate da elevatissima sinistrosità.
Ora, se l’obbligo di contrattare in tema di r.c.a. è stato salvato dalla Corte di Lussemburgo per queste due sole ragioni, occorre chiedersi se esse sussistano anche con riferimento al nuovo obbligo di contrattare imposto dall’art. 1, comma 107, l. 213/23. La ragione sub (a) interesse pubblico è indiscutibilmente sussistente; la ragione sub (b) invece è insussistente. Le calamità naturali purtroppo sono uguali per tutti, né sono “falsificabili”. Quindi sarebbe insostenibile affermare che, se non esistesse l’obbligo di contrattare a carico delle imprese assicuratrici, gli abitanti di parte del territorio rimarrebbero privi di copertura.
8. Conclusioni
Una legge necessaria, troppo a lungo attesa, è questa l. 213/23. Italia e Grecia tra i 27 Paesi dell’Unione sono quelli che hanno il minor tasso di copertura assicurativa contro i danni da calamità naturali5. Una legge, tuttavia, forse scritta troppo in fretta, che contiene indicazioni concettualmente confliggenti sul piano della politica del diritto. Da un lato l’introduzione dell’obbligo di contrattare restringe l’autonomia negoziale delle parti e pone seri problemi di compatibilità col diritto comunitario; dall’altro però le previsioni in tema di scoperti, franchigie, sottoassicurazione, come abbiamo visto, sono in larga parte rimesse alla libera negoziazione delle parti. Ma su un piano teorico l’obbligo di contrattare ha per corollario la predisposizione d’un contenuto minimo obbligatorio del contratto, altrimenti quell’obbligo si ridurrebbe ad una lustra.
A fronte di questa irrisolta antinomia sarà centrale il ruolo dell’intermediario. Egli sarà tenuto ad informare l’assicurando innanzitutto che la sua proposta di assicurazione non potrà essere rifiutata dall’assicuratore, se conforme alle condizioni da questo predisposte; in secondo luogo ed ovviamente avrà l’obbligo di illustrare all’assicurando le varie opzioni circa l’estensione della copertura e la previsione di scoperti. Ma non vorrei essere nei suoi panni, quando si tratterà di spiegare all’assicurando se l’art. 7 d.m. 18/25 prevede uno scoperto obbligatorio od una assicurazione parziale…
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1 Sia detto col dovuto rispetto, ma trattasi di definizione insignificante. A parte il fatto che per stabilire cosa sia un “terreno” non c’è bisogno di fare un decreto ministeriale (basta lo Zanichelli), pare del tutto ovvio che qualunque terreno abbia una sua “conformazione” e sue “caratteristiche geografiche”.
2 In buon italiano diremmo “frutto di abuso” o “conseguenza di abuso”.
3 Anche questo è un bellissimo esempio di tautologia perfetta.
4 In Assicurazioni, 2009, II, 2, 161.
5 R. Cesari, Calamità naturali e assicurazioni – Intervento al convegno su “Calamità: nuovi percorsi per la ricostruzione”, Roma, 15 maggio 2024, in www.ivass.it/media/interviste/documenti/interventi/2024/2024_05_15_rc_protezione_civile/RC_Calamita_ naturali_e_assicurazioni_15_05_2024.pdf.
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