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Con la fine di marzo, si pensava di poter tornare ad una sorta di normalità post pandemia, e invece siamo stati decisamente troppo ottimisti. L’aggressione russa all’Ucraina ha causato, inevitabilmente, diverse reazioni.
Quella emotiva del mondo occidentale in primis: da una parte la paura di un conflitto che si propaghi sempre di più – e per la prima volta da quando la mia generazione ha memoria, col rischio reale di una guerra nucleare -, dall’altra l’orrore per la situazione delle persone coinvolte.

Sempre per la prima volta, in questo caso non solo per la mia generazione, stiamo assistendo nel mondo reale (e non solo nei film) a forme di risposta non convenzionali basate sull’utilizzo spinto della tecnologia informatica. È chiaro ormai a tutti che qualsiasi conflitto si è esteso a internet.
In poche parole, parallelamente ai missili russi su Kiev, ai carri armati e agli stinger è cominciata la guerra degli hacker.

Qualche ora dopo l’inizio del conflitto, i signori di Anonymous (gruppo collettivo di attivisti hacker, apolitico e apolide, nato nei primi anni del secolo con lo scopo dichiarato di battersi contro le ingiustizie e i “poteri forti”, ndr.) sono tornati a far parlare di loro grazie all’operazione ’#OpRussia’ annunciata in un video di tre minuti diffuso sui canali social.

L’obiettivo esplicito del collettivo è quello di tenere la popolazione russa informata su quanto sta accadendo in Ucraina per aggirare la censura ufficiale e di richiedere ai soldati russi di deporre le armi e opporsi alla guerra.
Contemporaneamente, sono giunti diversi aiuti sui canali di comunicazione ucraini – sia per mantenerli attivi, sia per proteg- gerli da tentativi di sabotaggio.

Nel giro di qualche giorno, Anonymous ha mantenuto le promesse hackerando, nell’ordine: le principali tv russe e i loro mezzi di comunicazione (Rossiya 24, Channel One e Moscow 24), i maggiori servizi streaming (Wink e Ivi), il telefono di oltre 7 mln di russi (il 13 marzo è riuscito ad inviare SMS ai cittadini russi sollecitandoli a insorgere contro Putin e a rimuoverlo dal potere) e più di 400 webcam su tutto il territorio.

Al di là di una profonda comprensione (non solo conoscenza!) delle infrastrutture informatiche sia hardware che software, l’hacker è storicamente un individuo ispirato da ideali di curiosità e libertà: il software deve essere libero e ogni informazione condivisa (sulla genesi di questo argomento, se non l’avete ancora fatto, consiglio di leggere The Game di Alessandro Baricco).

Nonostante la tecnologia internet sia un settore molto complicato e in continua evoluzione (stare dietro ai nuovi linguaggi e ai vari protocolli di comunicazione sembra un’impresa impossibile) la struttura di intrusione utilizzata dagli hacker resta fondamentalmente invariata negli anni: innanzitutto l’errore umano (un buco di progettazione del software o dell’infrastruttura), poi l’ingegneria sociale (phishing, informazioni sociali, ecc.) e infine la forza bruta (progettazione di software che provano e riprovano con la forza ad entrare).

Quello che cambia, come per ogni aspetto dell’esistenza, è l’uso che si decide di fare della tecnologia e, nel caso specifico, delle proprie abilità di hacking. Spesso si tende a confondere l’hacker con il cracker (il cui scopo è prettamente violare e danneggiare un sistema).
Per questo motivo, storicamente, gli hacker rientrano in tre categorie – e per definirle si utilizza spesso una metafora western: i black hat (dal cappello nero) agiscono fondamentalmente per “rubare” o distruggere; viceversa i white hat (dal cappelo bianco) non perseguono tornaconti personali ma rimangono “puri” rispetto allo spirito di curiosità e libertà iniziale (ad esempio proteggendo i sistemi di sicurezza di un’organizzazione rilevandone i punti deboli o esaminando i prodotti software alla ricerca di vulnerabilità).

Il terzo gruppo è quello dei mercenari per cui non è tanto rilevante il colore di appartenenza, quanto la paga del datore di lavoro. La mia generazione ha visto da vicino la nascita (ma soprattutto lo sviluppo massivo) delle tecnologie legate al web e all’informatica in generale. Per questo motivo, forse più di altre, subisce il fascino del cyberspazio e dei buoni (almeno nel mio caso) cowboy informatici.

Chi tra voi, da piccolo, non si è sentito un hacker in erba nel riuscire a far girare i primi videogiochi su floppy? Chi non ha mai desiderato scorgere nel metaverso i riflessi di Inverno Muto o aiutare Jimi a cancellare il suo Nirvana?

Non c’è nessun cancello, nessun lucchetto, nessun bullone che potete mettere alla libertà della mia mente.
(Una stanza tutta per sé – 1929 – Virginia Woolf)

marta.rossi@diagramma.it