LINEA DURA DEI GIUDICI DI LEGITTIMITÀ SULLA RESPONSABILITÀ DEL PRESTANOME PER BANCAROTTA
di Stefano Loconte; e Giulia Maria Mentasti
Niente sconti per le teste di legno: è quanto emerge dalla sentenza n. 12841 del 5 aprile scorso, con cui la quinta sezione penale della Cassazione ha ritenuto responsabile anche l’amministratore «di diritto» per i fatti di bancarotta posti in essere dall’amministratore «di fatto». L’assunzione della carica di amministratore (c.d. di diritto) aveva infatti consentito all’amministratore di fatto di proseguire una gestione scellerata della società; quanto al contributo causale di rilievo alla commissione dei fatti, la Suprema Corte lo ha individuato nel disinteresse manifestato dall’amministrazione nei confronti della società, precisando come la consapevolezza delle responsabilità derivanti dalla carica gli imponevano di controllare l’operato dell’amministratore di fatto e di impedire la commissione ad opera di quest’ultimo dei fatti di bancarotta.

Il principio in sintesi. Ad avviso della Cassazione, l’amministratore di diritto risponde, unitamente all’amministratore di fatto, per non avere impedito l’evento che aveva l’obbligo di impedire, essendo sufficiente, sotto il profilo soggettivo, la generica consapevolezza che l’amministratore effettivo distragga, occulti, dissimuli distrugga o dissipi i beni sociali.

Molto difficile provare a difendersi; infatti, anche allorché si tratti di soggetto che accetti di ricoprire solo formalmente la carica di amministratore all’esclusivo scopo di fare da prestanome, per la Corte la consapevolezza che dalla propria condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato (dolo generico) o l’accettazione del rischio che questi si verifichino (dolo eventuale) possono risultare sufficienti per l’affermazione della responsabilità penale.

La questione. La sentenza in commento ha rappresentato un’occasione per la Cassazione per esaminare uno dei temi più controversi nel panorama giurisprudenziale in materia penal-fallimentare, ovvero la responsabilità dei soggetti, chiamati anche «teste di legno», che rivestono formalmente la qualità di amministratori e firmano le decisioni della società, anche se in concreto queste vengono adottate da altri, i c.d. amministratori di fatto. Dunque, quando in ipotesi accusatoria con le predette azioni si sono dissipati i beni sociali, non sempre pacifico è se anche l’amministratore di diritto debba rispondere insieme al suo «burattinaio» del reato di bancarotta.

La responsabilità dell’amministratore di diritto. Nel caso concreto i giudici di merito, nell’affermare la penale responsabilità dell’imputato, avevano osservato che egli aveva ricoperto il ruolo di amministratore, e poi di liquidatore, della srl fallita in un periodo particolarmente critico per la società. E soprattutto, nonostante la difesa avesse impugnato la condanna in primo grado evidenziando che egli fosse un mero prestanome e non avesse concretamente partecipato alla gestione della società, e neppure fosse stato posto in grado di percepire «segnali di allarme» in ordine alle condizioni in cui versava la società, la Corte d’Appello aveva osservato che tali argomenti erano stati già affrontati dal Tribunale, secondo il quale egli per età e preparazione, in quanto ragioniere, era «in grado di comprendere la situazione nella quale si era inserito». In particolare, seppur dalle deposizioni dei testi era emerso che effettivamente l’imputato non avesse mai gestito la società, tuttavia la sua responsabilità sarebbe emersa, ad avviso dei giudici, dalla circostanza che proprio durante il periodo in cui egli aveva rivestito la carica di amministratore e poi di liquidatore della srl erano state adottate tutte le iniziative gestionali che avevano arrecato grave danno patrimoniale alla società, la perdita del capitale sociale e il passaggio alla fase di liquidazione, nonché si era omesso il versamento dei debiti tributari e contributivi. Aveva evidenziato il Tribunale che, essendo l’imputato ragioniere inserito nel mondo del lavoro, era in grado di rendersi conto delle responsabilità connesse alla sua carica; peraltro, egli era divenuto amministratore in un periodo in cui la società già versava in condizioni così gravi da rendere non credibile la sua affermazione secondo la quale egli non aveva consapevolezza della situazione finanziaria dell’impresa.

Il dolo eventuale quale elemento sufficiente. Inutile il tentativo della difesa di disconoscere le firme apposte sulla documentazione societaria. Infatti, premesso che non vi era ragione di dubitare che l’imputato avesse personalmente sottoscritto i documenti societari che richiedevano la firma dell’amministratore di diritto o del liquidatore, tuttavia, per i giudici di merito, anche laddove tale ricostruzione non fosse stata esatta, avrebbe comunque dovuto essere affermata la sua penale responsabilità, ricorrendo almeno il dolo eventuale. Specificamente, «nella ipotesi più favorevole per l’imputato», egli aveva comunque accettato di fungere da prestanome per poi disinteressarsi completamente delle vicende della società, nonostante la grave situazione in cui essa versava e il fatto che fosse ben in grado di comprendere la situazione nella quale era inserito (essendo dotato di competenze professionali specifiche e avendo in passato anche svolto attività imprenditoriale, sia pure nel settore della comunicazione e del marketing), dimostrando con ciò la sua consapevole volontà di agevolare i piani dell’amministratore di fatto a proseguire ad ogni costo l’attività produttiva a grave detrimento del patrimonio sociale e dei creditori che su quel patrimonio contavano per soddisfare i loro crediti.

Il disinteresse quale contributo causale all’evento che si doveva impedire. Ragionamento che ha superato il vaglio della Cassazione. Ne è conseguito che, per la Suprema Corte, non sussisteva alcun vizio della decisione e non risultava, a tali fini, decisivo l’accertamento della autenticità della firma apposta ai documenti venuti in rilievo, poiché la responsabilità dell’amministratore avrebbe dovuto essere confermata anche laddove fosse stato accertato che la firma da lui apparentemente apposta al contratto era apocrifa. In altre parole, anche nella denegata ipotesi in cui la suddetta ricostruzione prospettata dalla difesa si fosse rivelata fondata, la assunzione della carica di amministratore aveva consentito all’amministratore di fatto della fallita di proseguire una gestione scellerata della società; dunque, nonostante l’imputato fosse consapevole delle responsabilità connesse alla carica e del dovere di controllare l’operato dell’amministratore di fatto e di impedire la commissione ad opera di quest’ultimo di fatti di bancarotta, attraverso il totale disinteresse per la amministrazione della società aveva fornito un contributo causale di rilievo alla commissione dei fatti per i quali si procedeva.

La decisione della Suprema Corte. Per la Suprema Corte, così come sostenuto dai giudici di merito, in casi come questi deve essere ritenuto sussistente almeno il dolo eventuale e di conseguenza affermata la responsabilità dell’imputato. Èstato così in sentenza esplicitato il principio per cui, in tema di bancarott a fraudolenta, l’amministratore di diritto risponde unitamente all’amministratore di fatto per non avere impedito l’evento che aveva l’obbligo di impedire, essendo sufficiente, sotto il profilo soggettivo, la generica consapevolezza che l’amministratore effettivo distragga, occulti, dissimuli, distrugga o dissipi i beni sociali. E sebbene la Cassazione abbia sottolineato che questa non possa dedursi dal solo fatto dell’accettazione di ricoprire formalmente la carica di amministratore, tuttavia, allorché si tratti di soggetto che accetti il ruolo di amministratore esclusivamente allo scopo di fare da prestanome, la mera consapevolezza che dalla propria condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato (dolo generico) o l’accettazione del rischio che questi si verifichino (dolo eventuale) possono risultare sufficienti per l’affermazione della responsabilità penale. Per questo la Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile e ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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