Per i giovani Brambilla (Itinerari Previdenziali) propone di uniformare il metodo contributivo a quello misto, superando la Fornero Il sistema è sostenibile? Sì, se tutti lavorano fino all’età che gli spetta
di Marco Capponi
Riformare il sistema pensionistico italiano potrebbe non richiedere una rivoluzione a 360 gradi, ma pochi assestamenti che garantiscano l’equilibrio del sistema e la sua sostenibilità nel tempo, soprattutto per le nuove generazioni. MF-Milano Finanza ne ha parlato con Alberto Brambilla, presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali e sottosegretario con delega al Welfare tra il 2001 e il 2005.
Domanda. Professore, che tipo di pensione disegnerebbe per chi entra oggi nel mondo del lavoro?
Risposta. Partiamo da un presupposto: le riforme delle pensioni per mettere in sicurezza il sistema, per quanto riguarda i retributivi, i misti e i contributivi puri, sono già state fatte. Vanno ritoccati solo alcuni punti.
D. Per esempio la Fornero?
R. È senza dubbio necessario cambiarla. La riforma ha diviso i lavoratori in due: da una parte i retributivi e i misti, dall’altra i contributivi. Questi ultimi possono andare in pensione a 64 anni con 20 di contributi, ma solo con una pensione che sia 2,8 volte l’assegno sociale, quindi circa 1.310 euro mensili: difficilmente la maggioranza dei giovani potrà arrivare a questi numeri. D’altro canto, se si va in pensione a 67 anni bisogna avere una pensione pari a 1,5 volte l’assegno: i misti possono farcela tranquillamente, molti contributivi dovranno invece lavorare fino a 71 anni. Non solo: andranno in pensione senza alcuna integrazione.
D. Quali ritocchi suggerisce?
R. La regola aurea dovrebbe essere quella di equiparare le regole dei contributivi e dei misti, evitando disomogeneità e percorrendo tre strade principali. Primo, quella della pensione di vecchiaia anticipata, cioè 64 anni e 38 di contributi: introdotta quest’anno (Quota 102, ndr), andrà mantenuta così, adeguando i 64 anni all’aspettativa di vita. Su questo punto siamo soddisfatti. Seconda via, gli anni di contribuzione, pari a 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne. La Fornero aveva adeguato questo calcolo all’aspettativa di vita, un caso unico a livello mondiale. L’adeguamento è stato sterilizzato fino al 2026 e mi auguro che non venga più ripristinato. E terza soluzione, i 67 anni di anzianità e 20 di contributi: direi di aumentare questa cifra a 25, per evitare troppo assistenzialismo, adeguando al contempo i 67 anni all’aspettativa di vita.
D. Queste però sono le regole dei misti, per l’appunto.
R. Per la generazione Z interverrei appunto sulla Fornero, permettendo a retributivi, misti e contributivi di avere le stesse regole. E poi aggiungerei l’integrazione al minimo, con un meccanismo nuovo per i giovani lavoratori e pensato per incentivare comunque il lavoro. Ipotizziamo di fissare un importo per la pensione minima, diciamo 600 euro. La persona, sempre per ipotesi, arriva alla fine della sua attività lavorativa con una pensione a calcolo di 250 euro. Cosa fare con quei 350 di differenza? Li dividiamo per 35 anni di lavoro, un parametro fisso adottato in tutta Europa, e moltiplichiamo per gli anni effettivamente lavorati. Così avviene l’integrazione.
D. Il sistema rimarrà sostenibile anche con una popolazione sempre più vecchia?
R. Il sistema previdenziale disegnato finora, con le modifiche di cui abbiamo parlato, è sostenibile. Già oggi il 95% dei potenziali pensionati ha almeno il 60% della pensione calcolata col metodo contributivo, per cui tra circa sette, otto, massimo 10 anni, avremo la totalità delle persone con almeno l’80% della pensione calcolata col contributivo, che è un meccanismo pensato per mantenere l’equilibrio nel tempo.
D. Cosa può andare storto?
R. Solo una cosa va evitata: continuare a fare prepensionamenti come abbiamo fatto finora. Negli ultimi 10 anni abbiamo mandato in pensione anticipata 800mila persone, in deroga alle regole della Fornero. L’anticipo deve riguardare solo poche figure in condizioni di oggettiva difficoltà. Tutti gli altri devono lavorare fino all’età che spetta loro, e per questo serve anche un’organizzazione del lavoro più moderna, flessibile e che sappia favorire l’invecchiamento attivo.
D. Ma se tutti lavorano così tanto, non c’è rischio che i giovani rimangano disoccupati?
R. In Germania ci sono 81 milioni di abitanti, e oltre 40,5 milioni lavorano. In Francia, con circa 60 milioni di abitanti lavorano in 34 milioni. In Italia su 36 milioni di persone in età lavorativa ne sono occupati meno di 23. Nel nostro Paese si parla spesso del ricorso agli extracomunitari perché manca di forza lavoro, ma poi ha cittadini che si permettono il lusso di non lavorare. L’economia si svilupperà, e di riflesso il sistema pensionistico, se riusciremo a mobilitare questa riserva di forza lavoro inutilizzata. E dall’agricoltura alle aziende, la domanda delle imprese è sempre altissima.
D. Che fare per far crescere le adesioni alla previdenza complementare?
R. Il sistema di pensione integrativa è fondamentale per avere prestazioni che siano il più possibile vicine all’ultimo stipendio e garantirsi un buon tenore di vita dopo il pensionamento. Per lanciarlo serve anzitutto un’azione culturale: la maggior parte dei nostri giovani non sa neanche in cosa consiste il sistema di previdenza pubblica. Quindi il primo passo è educativo.
D. E per chi avesse paura di sottoscrivere la previdenza complementare per via dei costi?
R. I dipendenti la possono pagare col tfr, gli autonomi possono versare il 3% del reddito -meno del 2% al netto delle tasse- per avere anche il 10% in più nell’assegno. La previdenza alternativa è agevolata fiscalmente, non è onerosa, ma garantisce quel tanto in più che alla fine della propria vita professionale sarà fondamentale. (riproduzione riservata)
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