Azionisti troppo attivi possono essere un rischio, anche per Generali. Il caso virtuoso di Finint, la finanza del Nordest e il ricordo dell’alleato Kellner. Parla l’ex ceo del Leone di Trieste
di Luca Gualtieri
Una buona governance è un ingrediente essenziale per la crescita di una società. Giovanni Perissinotto è convinto di averla trovata in Banca Finint, l’istituto fondato da Enrico Marchi di cui oggi è vice presidente. Più controverso è il ricordo della governance di Generali, per cui Perissinotto ha lavorato 33 anni fino a diventarne amministratore delegato. Degli anni al timone del Leone oggi il manager rivendica i risultati, dall’affermazione di Banca Generali all’alleanza con il recentemente scomparso Petr Kellner, fino alla costruzione di forti legami con il Nord Est. Il bilancio delle gestioni successive lo lascia ad altri, ma di una cosa è certo: gli azionisti non devono diventare troppo attivi in una società. Un tema che, ieri come oggi, a Trieste è rimasto di attualità.
Domanda. Perissinotto, qual è oggi la situazione economica nel Nord Est?
Risposta. Come nel resto del Paese la recessione dovuta alla pandemia ha prodotto due reazioni completamente diverse. Da un lato l’economia tradizionale è entrata in crisi; dall’altra lato i settori legati alla tecnologia e ai canali digitali hanno registrato risultati positivi. Basti pensare all’ecommerce, al fintech o al pharma. Un caso esemplare nel Nord Est è quello del gruppo Stevanato che, grazie alla produzione delle fiale per inoculare il vaccino, ha assunto una rilevanza internazionale. Come questa oggi vedo molte aziende pronte a investire e a innovare e credo che questo spirito di iniziativa sia una risorsa fondamentale dell’imprenditorialità italiana. Occorre infatti ricordare che, per uscire dalla crisi e soprattutto per ridurre il debito pubblico, l’economia dovrà ricominciare a crescere a un ritmo sostenuto. I tassi bassi, il credito disponibile e gli aiuti sostanziosi dell’Europa daranno certamente una mano, ma il sistema produttivo dovrà rimboccarsi le maniche.
D. Che ruolo può giocare una banca in questa fase?
R. Parto dalla nostra esperienza. Finint è nata scommettendo sull’innovazione. Basti pensare che è stata la prima realtà a portare uno strumento finanziario essenziale come le cartolarizzazioni sul mercato italiano. Senza contare il lavoro svolto sui minibond, altro settore in cui siamo stati degli innovatori. Ma, oltre a questi aspetti, mi piace ricordare che Finint ha sempre posto l’accento sul radicamento nei territori di riferimento. Anche se il gruppo ha lavorato molto anche fuori dal Triveneto, gran parte del business è svolta qui. Questo fa molto piacere anche alla comunità degli imprenditori perché significa che c’è una banca che spende il proprio tempo sul territorio, proponendo soluzioni innovative. Uno degli aspetti più penalizzati negli sviluppi recenti del sistema finanziario è stata del resto l’attenzione ai territori. Si sono create realtà nazionali più efficienti, ma in molti casi l’imprenditore non è più al centro dell’attenzione. Un altro aspetto a mio avviso rilevante è l’attenzione per i risvolti sociali dell’attività bancaria. In Finint ad esempio, con i nostri fondi di investimento, siamo impegnati anche in progetti che si focalizzano su questi particolari aspetti come il social housing o lo student housing.
D. Avete appena presentato un’offerta vincolante per Consulia. Nel frattempo confermate il vostro interesse per Cattolica Assicurazioni?
R. Siamo in attesa di conoscere il punto di vista degli stakeholder della compagnia. Questa operazione infatti non è stata concepita in un’ottica ostile ma con l’obiettivo di creare un nocciolo di investitori che dia stabilità e crescita nel futuro e supporti un’importante realtà del territorio. È lo stesso spirito in cui Finint ha agito con Civibank, l’unica banca autonoma con sede nel Friuli Venezia Giulia se si escludono le bcc.
D. Come è cambiato il panorama finanziario del Nord Est negli ultimi 20 anni?
R. Se guardiamo a cos’era 20 anni fa l’economia del Nord Est, è facile osservare che non si è sviluppata per il meglio. E questo nonostante le risorse di cui dispone il tessuto imprenditoriale. Pensiamo solo al progetto aeroportuale costruito attorno allo scalo di Venezia che oggi rappresenta una risorsa essenziale per il Paese. Le capacità insomma ci sono ma occorre una predisposizione per il rischio che in Italia non viene incentivata. Pensiamo per esempio al peso della burocrazia che spesso finisce per soffocare molte energie imprenditoriali: non è possibile che per aprire uno stabilimento occorrano anni.
D. In 20 anni sono sparite molte banche, dalla casse di risparmio all’Antonveneta di Silvano Pontello fino alle popolari. Un depauperamento?
R. Va detto che la scomparsa di alcuni di quegli istituti è stata prodotta da una governance del tutto inefficace e incapace di evolvere. Detto questo mi chiedo: è un bene però che il Nord Est sia rimasto privo di banche? Non credo. Non c’è benessere delle imprese se non c’è benessere del sistema bancario. È noto che negli Stati Uniti la priorità dell’amministrazione subito dopo l’esplosione della crisi del 2008 è stato mettere in sicurezza e rivitalizzare gli istituti di credito. Una vicenda che il ceo della Jp Morgan Jamie Dimon mi ha raccontato personalmente negli incontri che abbiamo avuto.
D. Lei è stato ceo delle Generali per cui ha lavorato 33 anni. In quel ruolo si spese per rafforzare il legame tra la compagnia e il Nord Est. Una strategia che oggi rivendica?
R. Certamente. In Generali avevamo voluto che il gruppo avesse il cuore internazionale a Trieste e il fulcro delle operazioni italiane a Mogliano Veneto. In questa e in altre scelte l’obiettivo è sempre stato quello di non perdere il contatto con il territorio. Quando mi occupavo delle partecipazioni del gruppo per esempio abbiamo acquisito quote importanti come quella nell’aeroporto di Venezia. Un’attenzione ricambiata da molti investitori del Nord Est che proprio in quegli anni assunsero posizioni di rilievo nel capitale del Leone.
D. Un’attenzione che alla fine del suo mandato però qualcuno ha criticato.
R. Rispondo ricordando che la nostra sensibilità verso il territorio d’elezione non ha certo penalizzato la vocazione internazionale del gruppo Generali. I bilanci sono lì a dimostrarlo, malgrado la complessità della congiuntura economica che abbiamo attraversato. Basti pensare ai risultati raggiunti da Banca Generali, alla crescita nell’asset management o alla partnership di successo siglata con la Ppf di Petr Kellner.
D. Kellner è scomparso proprio nelle scorse settimane. Un suo ricordo?
R. Ho sempre ammirato Kellner, un imprenditore dalle idee chiare e decise che è stato in grado di creare una fortuna partendo da un negozio di fotocopiatrici. E questo a Praga, si badi, non a Londra o a New York. Un dettaglio non di poco conto.
D. Come è cambiata Generali negli ultimi dieci anni?
R. Non spetta certo a me fare bilanci. Per dare un giudizio complessivo bisognerebbe analizzare con attenzione i risultati e l’andamento del titolo in borsa. Di una cosa però sono sicuro: gli azionisti non devono diventare troppo attivi in una società.

D. In questi ultimi mesi il tema le sembra tornato di attualità a Trieste?
R. Non entro nel merito. In termini generali gli azionisti hanno il diritto di scegliere gli amministratori che ritengono più validi, ma poi devono metterli nelle condizioni di lavorare e di produrre risultati nel medio-lungo periodo. Una governance sana è essenziale per la performance di una società.
D. Come cambierà la finanza italiana dopo la pandemia?
R. Si parla molto di consolidamento, ma non credo che la dimensione sia un ingrediente indispensabile per la crescita. Essere grandi non è la soluzione ad ogni problema. Mi chiedo al contrario se dal punto di vista del consumatore sia auspicabile una deriva oligopolistica nel mondo della finanza e soprattutto delle banche. Ritengo più importante focalizzarsi sull’efficienza e sulla specializzazione come da tempo stiamo facendo con Finint. I risultati conseguiti ci hanno dato ragione. (riproduzione riservata)

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