Nessuna condanna se la contestazione è in buona fede
di Debora Alberici*
*cassazione.net

Non rischia una condanna per calunnia chi rivolge ai capi accuse infondate di mobbing. Ciò a patto che la scelta della contestazione sia inevitabile. Lo ha sancito la Corte di cassazione che, con la sentenza n. 14583 del 18 aprile 2021, ha accolto il ricorso di un impiegato che aveva accusato i suoi dirigenti di mobbing.
La sesta sezione penale ha annullato il reato per prescrizione agli effetti penali e per mancanza di priva del dolo agli affetti civili. In poche parole l’uomo, fino a quando non verrà celebrato l’appello bis, non dovrà neppure risarcire i suoi capi del danno che questi sostenevano di aver subito in quanto calunniati. Ciò in primo luogo perché, hanno spiegato gli Ermellini, il problema del rapporto del reato di calunnia, come per altre ?gure di delitto contro l’amministrazione della giustizia, con il diritto di difesa è un problema di rapporto tra fattispecie oggettive: la figura legale del delitto di calunnia e l’ambito tipico del diritto di difesa, quale si evince dal complesso dell’ordinamento giuridico. E, secondo gli schemi concettuali della teoria del reato, la soluzione del problema può essere cercata su un duplice piano Ovvero quello del tipo di reato e quello di eventuali scriminanti oggettive, dunque di una scriminante che funge da causa di giustificazione di comportamenti conformi al tipo; l’esercizio del diritto di difesa, si ragiona, in determinati condizioni vale a legittimare taluni tipi di dichiarazioni, oggettivamente implicanti un pericolo per la tutela dell’innocenza e, perciò appunto, ricondotta al tipo delittuoso di calunnia, mediante la corrente interpretazione estensiva del concetto di denuncia. Non si è, dunque, in presenza di un rapporto tra regola e deroga ma in una situazione di conflitto di interessi tra la tutela dell’innocenza, di fronte a dichiarazioni accusatorie mendaci, e la garanzia della difesa di cui è contenuto essenziale e vincolabile quello di negare l’addebito. In poche parole, conclude la sesta sezione penale, il discrimen oggettivo tra attività consentita e condotta calunniosa non scriminata va dunque individuato nella essenzialità, ineluttabilità e continenza della scelta di contestazione dell’accusa. Ora gli atti torneranno alla Corte d’Appello di Roma che dovrà rivalutare il caso.

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