Il sistema bancario ha retto al Covid meglio che a Lehman. Un po’ perché ha imparato la lezione della volatilità in scenari straordinari, un po’ perché la Bce ha imposto per un decennio pulizie su crediti e prudenza sui dividendi. Il sistema bancario ha retto, ma non solo per meriti propri; sono servite moratorie e garanzie pubbliche sui crediti e soprattutto la liquidità immessa dalla Bce, che ha schiacciato i tassi ma ha impedito gravi perdite e salvaguardato il patrimonio. Inoltre le politiche monetarie hanno generato plusvalenze sui portafogli titoli un po’ per tutte le banche e sono state una manna per quelle che già facevano più utili su asset management e assicurazioni che sui prestiti ordinari.
Il bicchiere per ora sembra mezzo pieno. Ma per una Intesa Sanpaolo che ormai ha il baricentro dei suoi ottimi risultati su Wealth Management & Protection, ci sono molte altre banche in crisi d’identità. Non sanno più a chi prestare perché il prezzo del denaro a breve termine è nullo. Non possono più fare raccolta diretta perché, se poi non si impiega, lasciare i soldi sui conti Bce genera perdite. Non possono più fare utili facili come in passato con il mark-down (quando i soldi dei clienti sui conti correnti venivano investiti a breve in titoli pubblici o sull’interbancario).
Insomma, tutto quello che ha fatto prosperare senza fatica né rischi generazioni di banchieri è finito. Le banche stanno ora provando a ricostruirsi una comoda riserva di caccia chiedendo tassi negativi ai depositanti. Cercano di ricostruire un vantaggio competitivo, forse ai limiti del lecito sotto il profilo costituzionale (dove finisce la tutela del risparmio?) e dell’Antitrust (a chi altri possono lasciare i soldi i depositanti? Si torna al materasso?), tanto che c’è qualche avvocato che già prefigura una class action.
La Bce sta peraltro finanziando le banche private a colpi di centinaia di miliardi di Tltro a tassi ancora più bassi del -0,5% che impone sui depositi delle banche che non fanno impieghi. Vorrebbe spingerle a sostenere l’economia reale e ad assumersi quel rischio di credito che è la stessa ragion d’essere delle banche. Invece oggi molti istituti cercano di trasformarsi in qualcos’altro. I loro consulenti spiegano che bisogna avere meno rischi sui bilanci per aumentare i ritorni. Prima del caso Lehman per aumentare il roe (utili sul patrimonio) suggerivano di ridurre il denominatore, cioè l’equity, e tenere poche scorte di liquidità. Dopo il disastro del 2008-2011 si sono fatti più furbi. Ora bisogna massimizzare il rorac (capitale ponderato per il rischio) e quindi bandire i rischi dalle attività. Alla lunga si rischiano gli stessi danni subiti da gran parte dell’industria occidentale, che per massimizzare il roi (return on investment) per anni ha scelto di tagliare gli investimenti. Amadeo Giannini, fondatore di Bank of America, o Raffaele Mattioli, guida della Comit e fondatore di Mediobanca, si rivolterebbero nella tomba vedendo strategie che, se spinte al limite, annullano l’essenza della banca, nata per dare credito.
Da sempre chi si crede furbo cerca scorciatoie, ma ogni mestiere difficile richiede pazienza. I rischi non vanno cancellati ma valutati e diversificati. E senza i commerciali, che conoscono i clienti e devono essere in grado di prendere rischi, il miglior risk management del mondo non serve.
Un’altra tentazione per le banche è guardare solo ai processi di concentrazione. Da anni banchieri e consulenti puntano a una situazione di oligopolio, con solo 5-10 banche con quote di mercato significative, per rimpolpare i conti economici prima con i tagli dei costi e un po’ alla volta aumentando i prezzi. È comprensibile, ma ciò dovrebbe essere anche accompagnato da una ripresa del difficile mestiere del fare credito. Se il denaro a breve rende poco, le banche devono reimparare a farlo a lungo termine, facendosi pagare un po’ di più e contribuendo così a selezionare e rendere più solide le imprese clienti. Di questo il sistema Italia ha un grande bisogno, più che di trasformarsi in un grande private banking per clienti anziani o già ricchi ma senza prospettive di sviluppo. (riproduzione riservata)
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