di Giuseppe Vegas
La quotazione di Coinbase ha fatto esplodere il tema del danaro elettronico. Ed è inevitabile per le autorità monetarie e finanziarie di tutto il mondo affrontare una buona volta un problema che da anni tutti, o quasi, facevano finta di non vedere. Le monete virtuali, prima fra tutte il ben noto bitcoin – ma le cryptocurrencies si contano ormai a migliaia – circolano da anni. Ma, in un’epoca di crescita verticale dei sistemi di pagamento elettronici, qualche confusione si è creata tra gli uni e le altre. E non si tratta di confusioni del tutto ingiustificate, perché in fondo entrambi i meccanismi servono per pagare.
Mentre il pagamento elettronico non è altro che uno strumento moderno che sostituisce e affianca la moneta cartacea tradizionale, in quanto espressione del potere statale che garantisce i pagamenti effettuati con la valuta ufficiale, che non può essere rifiutata dal creditore, altrettanto non avviene nel caso delle criptovalute. In questo caso infatti la circolazione è puramente fiduciaria e la sua accettazione dipende dalla volontà del creditore. Ovviamente, la preferenza ad accettare un simile tipo di valuta può dipendere dalla circostanza che essa può offrire copertura all’anonimato, oppure può costituire un meccanismo di transazione più agevole.
Tuttavia, il motivo principale per cui queste valute sono accettate dipende dal fatto che la variazione del loro valore nel tempo non dipende tanto dall’andamento dell’inflazione o dai rapporti di cambio con le altre valute, quanto piuttosto da ragioni speculative. Chi ottiene un pagamento sa che probabilmente la somma incassata è più bassa di quella che potrebbe ottenere un domani, ma nella quantità di moneta percepita è incorporato, nelle ragionevoli speranze del percettore, un incremento di valore dello strumento di pagamento, tale da renderne proficua la detenzione. D’altra parte, chi paga deve prioritariamente procurarsi la criptovaluta e dunque destinare all’acquisto una determinata quantità di moneta legale, cui è disposto a rinunciare principalmente perché è convinto che se rinviasse il pagamento dovrebbe sopportare un costo superiore. In sostanza, entrambe le parti sottoscrivono un contratto di scambio – che ha molte similitudini con il vecchio baratto – nel quale il motivo della transazione (la causa del contratto, direbbero i giuristi) non è tanto lo scambio di un bene contro denaro, quanto piuttosto una scommessa su una futura variazione del valore dello strumento usato per il pagamento.
Che, in definitiva, non assume altre caratteristiche se non quelle di un future, cioè di uno strumento finanziario appartenente alla nota, più o meno tristemente, categoria dei derivati. È certamente vero che una parte non trascurabile del montante complessivo delle criptovalute non ha solo la funzione di strumento speculativo, quanto piuttosto di conservazione del valore. Basti considerare la loro amplissima diffusione in realtà nazionali dove non è assicurata ai detentori di moneta locale, principalmente in conseguenza dei drammatici problemi inflattivi in atto, la conservazione del valore che essa rappresenta – e dove non è consentito ai residenti convertire la valuta nazionale in moneta stabile come dollaro o euro – come avviene, ad esempio, in Brasile, Turchia o Nigeria. E, d’altra parte, è pur vero che la massa di pagamenti intermediata dalle criptovalute ha assunto una tale l’ampiezza da compromettere la capacità delle banche centrali di regolare la massa monetaria, incrinandone per tal via la possibilità di conseguire concretamente gli obiettivi di politica monetaria perseguiti e, conseguentemente, quelli di politica economica dei rispettivi governi.
Si tratta in ogni caso di effetti reali, anche gravi, ma comunque secondari rispetto al vero motivo della straordinaria diffusione delle criptovalute, che dipende sostanzialmente dal fatto che sono considerate da chi le acquista e le conserva come veri e propri strumenti finanziari, cioè null’altro che un mezzo di investimento di natura finanziaria, a cui possono ricorrere risparmiatori ed investitori. Una volta chiarita la reale differenza tra strumenti di pagamento elettronici veri e propri e criptovalute, è ormai giunto il momento di affrontare con coraggio la situazione da parte dei governi e delle autorità di controllo dei mercati finanziari, per chiarire, una volta per tutte, che poiché non si tratta che di strumenti finanziari, esse, come tutti gli altri prodotti analoghi, devono essere regolamentate e controllate. Altrimenti si correrà il rischio che molti risparmiatori si possano trovare nelle condizioni di perdere in tutto o in parte il loro il loro denaro e ne chiedano conto a chi non li ha protetti. Non a caso, il meccanismo non si differenzia sostanzialmente dal ben noto «schema Ponzi» e dalla catena di Sant’Antonio applicata agli investimenti. (riproduzione riservata)
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