di Marco Capponi
Cresce la raccolta ma diminuisce l’ammontare investito. La fotografia del settore del private equity e del venture capital italiano nel 2020 pandemico mostra uno scenario a due facce, che se da una parte indica una maggiore propensione delle imprese agli strumenti di finanza alternativa, dall’altra lascia supporre che il percorso di questo strumento non sia ancora pienamente maturo. I risultati, presentati e discussi nella giornata di ieri, sono stati elaborati da Aifi (Associazione italiana private equity, venture capital e private debt) in collaborazione con PwC-Deals. Quello che è emerso è che la raccolta dello scorso anno è stata di 2,6 miliardi di euro, di cui 2,1 reperiti sul mercato, con una crescita complessiva su base annua del 64%. D’altro canto l’ammontare investito è stato pari a 6,6 miliardi, in contrazione del 9% rispetto ai 7,2 del 2019. Tra private equity, venture capital e infrastrutture le operazioni sono state 471, in crescita del 27% dalle 370 dell’anno precedente.
Un elemento da monitorare con attenzione è l’interesse sempre maggiore delle imprese italiane all’equity come fonte di finanziamento: i dati riportati da Aifi mostrano infatti un incremento dell’appel di questo strumento, passato dal 3,8% del 2018 a una previsione del 9,9% per il primo semestre 2021. «Le aziende sanno che il ricorso alle banche è meno facile di prima e si rivolgono all’equity», ha spiegato Innocenzo Cipolletta, presidente Aifi, prima di aggiungere: «La finanza alternativa può giocare un ruolo in questo cambio di paradigma, instaurando però un rapporto sinergico con lo Stato e la finanza pubblica». Questa cooperazione può nascere in vari modi. «Per le imprese piccolissime», ha sottolineato Cipolletta, «servono sussidi a fondo perduto. Per quelle di dimensioni maggiori si deve invece garantire l’afflusso di capitali». Come farlo? Una strada, già percorsa dalla Francia, è quella di erogare prestiti partecipativi garantiti dallo Stato, con riduzione del rischio e minor impiego di finanze pubbliche. C’è però anche un’altra soluzione, ha sottolineato il presidente dell’associazione di categoria: «Costituire un fondo dei fondi da 4-6 miliardi di euro che possa investire in operatori di private capital, generando un importante effetto leva». In questo modo la liquidità e i risparmi da record degli italiani verrebbero convogliati «tramite un anchor investor pubblico che favorisca la nascita di nuovi operatori di private capital di dimensioni elevate, o l’aggregazione di quelli esistenti». In questo modo si impedirebbe anche un altro problema, «quello dell’ingresso diretto dello Stato nelle imprese, che raramente garantisce loro una vita economica normale».
Sul versante della raccolta, Aifi e PwC hanno registrato un incremento importante dell’apporto dato dalle assicurazioni, salite al 26,8% dal 6,7% del 2019. «Si tratta di progetti specifici, orientati ai fondi infrastrutturali», ha commentato Anna Gervasoni, direttore generale Aifi. Negativo invece il fatto che solo il 10% della raccolta sul mercato sia ascrivibile a investitori esteri. «Non si tratta di sfiducia verso il mercato italiano», ha precisato Gervasoni, «ma di un effetto della pandemia, che ha complicato le operazioni di fundraising fuori dai confini».
D’altro canto i dati hanno mostrato che il calo degli investimenti ha riguardato principalmente il primo semestre, con una riduzione anno su anno del -25%, mentre nei secondi sei mesi il valore è stato allineato al 2019. «Il trend è molto positivo», ha detto Francesco Giordano, partner di PwC Italia-Deals, che ha concluso: «Si tratta di un segno che, dopo un primo periodo di adattamento, gli operatori del private equity hanno ripreso la loro attività a pieno ritmo». (riproduzione riservata)
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