L’intervento della Cassazione nel caso di violazioni nella gestione di rifiuti pericolosi
La condotta in sé, pur se non lesiva, configura l’illecito
Pagina a cura di Andrea Magagnoli
Anche se non c’è danno all’ambiente è condannato chi recupera rifiuti pericolosi violando le prescrizioni dell’Aia. È la condotta in sé che configura l’illecito, senza che sia necessario un danno effettivo al bene tutelato. In tal caso l’ambiente.
Questo è il principio posto dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 17056/2019, nel caso di violazioni compiute da parte di un amministratore di società alle prescrizioni inerenti alle modalità di gestione dei rifiuti pericolosi impartite dall’amministrazione provinciale.
In particolare all’imputato era stato contestato di avere effettuato nella sua qualità di dirigente aziendale, un’attività diretta al recupero di rifiuti pericolosi, le cui modalità contrastavano con le prescrizioni individuate in apposita autorizzazione integrata, emessa dalla provincia di Asti, la quale ne delimitava i confini e le modalità.
A seguito di tale condotta, accertata durante un accesso ispettivo da parte di un pubblico ufficiale, durante il quale era emersa la presenza di opere in loco che provavano in maniera indiscutibile la condotta illecita, conseguiva, come ovvio, la contestazione del reato di cui all’art. 29-quattordecies, comma 2, del dlgs n. 152 del 2006, il cosiddetto Testo unico ambientale, che sanziona il trattamento dei rifiuti pericolosi e non al di fuori delle prescrizioni regolamentari che ne governano lo stoccaggio.
Nel procedimento di merito, sulla base delle dichiarazioni rese del pubblico ufficiale che ne confermavano il precedente operato, era stato possibile raggiungere la prova positiva circa la condotta illecita dalla quale conseguiva la condanna per il reato di cui 29.quattordecies, comma 2, del dlgs n. 152 del 2006.
L’imputato, ritenendosi leso nei propri diritti, ricorreva per Cassazione al fine di ottenere l’annullamento della decisione di secondo grado.
Osservava il ricorrente come la figura di reato applicata a carico del suo assistito, da parte dei giudici della Corte d’appello, veniva prevista dall’ordinamento per altri casi e condotte ben diverse rispetto a quella contestata all’imputato, la quale era comunque estranea alle previsioni normative.
In particolare il legale, nella sua tesi difensiva, a sostegno della propria linea diretta a ottenere l’annullamento della sentenza di secondo grado, osservava che per potersi ritenere configurabile il reato contestato al ricorrente era a ogni modo necessario un danno effettivo all’interesse tutelato dalla norma, costituito dall’integrità dell’ambiente, che la previsione normativa da parte dell’ordinamento della figura di reato mira a tutelare.
L’applicazione, infatti, di una sanzione penale a una condotta come quella contestata al ricorrente configurerebbe l’assurdo giuridico di punire una condotta in concreto priva di ogni effetto lesivo per il bene tutelato dalla norma e sostanzialmente innocua.
Il procedimento, dopo avere esaurito il proprio corso, veniva deciso da parte degli ermellini con la sentenza recentemente depositata.
Nella motivazione della sentenza n. 17056 /2019 viene fatto oggetto d’esame, come ovvio, il motivo di ricorso afferente l’effettivo contenuto e la concreta estensione della figura di reato applicata nel caso di specie.
Gli ermellini prendono le mosse delle modalità d’accertamento della condotta illecita, compiuta, nel caso di specie, da parte di un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni.
Si trattava nel caso di specie di un funzionario dell’Arpa, il quale nel corso di un accesso ispettivo aveva verificato la presenza di tutti gli elementi che portavano a ritenere che l’attività di recupero dei rifiuti veniva effettuata al di fuori e contrariamente alle prescrizioni impartite dall’amministrazione provinciale che, ai sensi della normativa vigente, era l’organo competente in materia.
Il pubblico ufficiale confermava nel corso del procedimento di merito il suo operato, sotto l’aspetto della prova del fatto illecito la norma che prevedeva la sanzione penale era stata legittimamente applicata non potendosi in alcun modo discutere l’effettiva esistenza del fatto costituente reato.
La motivazione passa a esaminare l’ulteriore aspetto rappresentato da parte del ricorrente riguardante, invece, il contenuto normativo del reato dal quale discende la concreta operatività del reato previsto dall’art. 29-quattordecies, comma 2, del dlgs n. 152 del 2006.
La questione viene risolta da parte dei giudici della Corte suprema di cassazione sulla base dell’esame del contenuto della disposizione; dalla sua osservazione, infatti, emerge indiscutibilmente come la norma non compia alcun riferimento o menzione all’entità della condotta e alla sua concreta lesività; in altre parole dall’esame del dettato normativo risulta evidente come non abbia alcun peso nel disegno legislativo l’eventuale carattere pericoloso della condotta, la quale risulta, proprio per il suo carattere meritevole di punizione, anche nel caso in cui si concretizzi in una semplice violazione formale delle prescrizioni impartite dall’amministrazione provinciale.
La tesi difensiva pertanto si palesa come insostenibile, in quanto fondata su di una lettura della norma palesemente errata e non rispondente al suo contenuto e alla sua funzione.
Infatti, proseguono i magistrati della corte suprema di Cassazione il dettato normativo delinea in maniera piuttosto ampia la condotta illecita, senza che venga prevista alcuna condizione di punibilità per l’applicazione della sanzione, che diviene operativa e perfettamente applicabile nel caso di realizzazione degli elementi costitutivi della figura di reato.
Tale conclusione consegue alla natura riconosciuta all’art. 29-quattordecies, comma 2, del dlgs n. 152 del 2006. Tale illecito, infatti, secondo i magistrati della corte suprema presenta una indiscutibile natura formale, con la conseguenza che per la sua configurabilità non divengono necessari elementi ulteriori rispetto alla condotta.
L’applicazione della sanzione, infatti, discende in tali casi dalla mera violazione formale della normativa, la quale viene ritenuta da parte del legislatore di per sé lesiva del bene tutelato dall’ordinamento.
La conclusione sarebbe diametralmente opposta, invece, nel caso in cui al reato previsto dall’art. 29-quattordecies, comma 2, del dlgs n. 152 del 2006 venisse attribuita una natura sostanziale, in tali casi, infatti, la semplice violazione formale delle norme non sarebbe sufficiente a ritenere configurabile il reato che per la sua perfezione, richiederebbe altresì l’ulteriore elemento di una lesione al bene ambiente alla cui tutela è preordinata la norma.
L’opinione dei giudici della Corte suprema, pertanto, è tale da estendere la portata applicativa della norma la quale viene ritenuta operativa anche nel solo caso di una semplice violazione della normativa prevista per la gestione dei rifiuti.
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