Cassazione severa sulle responsabilità dei manager. Ora ampliate dal dlgs n. 14/2019
Pagine a cura di Giuseppe Ripa e Alessandro Lattanzi
Al vertice societario non possono sedere soggetti incompetenti e passivi: il codice civile impone che l’amministratore, sia esso delegante che delegato, sebbene con qualche differenza, debba adempiere ai propri doveri con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze e, laddove emergano segnali di anomalie gestionali, di attivarsi repentinamente al fine di farvi fronte, ovvero attenuarne i danni.
Detti doveri sono stati recentemente ampliati dal nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza («Ccii») che, attraverso le modifiche all’art. 2086, c.c., richiamato dagli artt. 2380-bis e 2475, c.c. (già in vigore dal 16 marzo scorso) e con l’inserimento degli strumenti d’allerta (in vigore, invece, dal 15 agosto 2020), obbligano i manager a dover istituire un assetto societario che sia adeguato alla complessità e dimensione della struttura aziendale, nonché alla tempestiva rilevazione della crisi d’impresa e della perdita della continuità aziendale. Ciò anche al fine di attivarsi e beneficiarie delle misure premiali disciplinate dall’art. 25, Ccii. A ciò occorre aggiungere che, con l’inserimento del comma 6 dell’art. 2475, c.c., la figura dell’amministratore di Srl appare più vicina che mai a quella della Spa.
Si è, quindi, di fronte a un cambiamento epocale del nostro sistema, che obbliga gli amministratori, ma anche gli imprenditori individuali, ad assumere definitivamente un comportamento proattivo, che tenga conto dei rischi derivanti dalla disciplina civile, penale, tributaria, fallimentare, financo ai modelli organizzativi ex dlgs 231/2001. E sul punto la Cassazione vigila ed è attenta, senza fare sconto alcuno.
Dal punto di vista civilistico è indubbio come la responsabilità di cui agli art. 2393-2395 c.c. travolga tanto la figura dell’amministratore delegato, tanto quella del delegante; tuttavia, nonostante questo non sia il tema centrale della questione, è opportuno tenere distinte le due posizioni, poiché, nonostante anche al delegante sia richiesta la diligenza tipica del mandatario nell’adempimento dell’obbligazione assunta, non gli è richiesto, invece, il controllo generale, ex comma 3, art. 2381, c.c., spettante, invece, ai soli delegati. I primi, devono, pertanto, «agire informati», ossia valutare l’assetto e l’andamento gestionale, in virtù dei dati fornitigli dai delegati, ovvero, nel caso in cui questi siano carenti, discordanti o addirittura assenti, attivarsi personalmente al fine di reperire le informazioni utili, stante l’inciso di cui al comma 6, art. 2381, c.c. Vi è inoltre l’ulteriore (e conseguenziale) obbligo di attivarsi concretamente al fine di impedire che il patrimonio societario subisca eventuali danni, laddove, dalle informazioni reperite, si paventi una simile ipotesi.
Questi sono gli unici atteggiamenti proattivi riconosciuti dalla Cassazione quali esimenti dalla responsabilità solidale, che si riferisce agli amministratori tout court.
Sul diritto vivente formatosi sulla questione de qua, in seno alle pronunce della Suprema Corte, giova citare la recente sentenza della II sez. civile, n. 7327/2019, la quale, chiamata a giudicare sul ricorso proposto da un membro del cda di una banca che si era visto irrogare dalla Banca d’Italia una sanzione amministrativa per violazione delle norme sulla governance e carenze organizzative nei controlli interni, ha avuto modo di ribadire come «il componente del cda ha sempre l’onere, anche in presenza di condotta egemone del presidente dell’organo, di svolgere la sua funzione di controllo sull’andamento della società, sollevando le opportune osservazioni, chiedendo i necessari chiarimenti, avendo cura di far inserire detti rilievi a verbale delle riunioni del consiglio di amministrazione alle quali prende parte esprimendo, all’occorrenza, voto contrario o quantomeno formalizzando la propria astensione in relazione a decisioni che egli non ritiene in linea con la corretta gestione della società».
In altre parole, tutti i membri del cda sono tenuti ad assumere un atteggiamento attivo nel board, attraverso la richiesta di informazioni, la loro analisi e sollevando i propri dubbi nel caso in cui l’operazione da porre in essere paventi un possibile danno alla società; a ciò si aggiunga che, nel caso in cui le informazioni manchino del tutto, anche in virtù del ruolo egemone del presidente o dell’amministratore delegato, sorge l’obbligo di attivarsi e di agire con ogni strumento disponibile.
E invero, la manifestazione del «semplice» dissenso è stata riconosciuta come esimente esclusivamente nel caso estremo in cui il consiglio ometta qualunque intervento, paralizzando cosi il dissenziente (ostacolato dalla maggioranza), o nell’unico caso in cui all’amministratore sia consentita l’azione individuale di impugnativa della delibera. In tutti gli altri casi, il membro del cda, a mente di quanto statuito dalla Cassazione, con sentenza n. 31204/2017, affinché possa dirsi affrancato dalla responsabilità, stante la sua concreta attivazione, deve utilizzare qualsiasi strumento concessogli dalla legge quali: la comunicazione per iscritto della notizia al presidente del collegio sindacale, l’impugnazione della delibera consiliare, l’impugnazione della delibera assembleare ai fini dell’annullabilità, ovvero della nullità, financo ad esperire la denuncia al tribunale per gravi irregolarità nella gestione.
Dacché, laddove l’amministratore sussuma anche un solo segnale di alert, (sulle varie tipologie, si veda Tribunale di Milano, Sez. Impr. B, 31 ottobre 2016, n. 11897) dovrà attivarsi immediatamente, secondo le modalità sopra stabilite.
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