Sono «nascosti» nelle casse delle prime cento imprese familiari, ma ci sono. 40 miliardi di euro liquidi, circa 13 volte quanto hanno raccolto i 17 fondi di private equity italiani con una dotazione superiore a 50 milioni (3,3 miliardi in totale,dati Aifi). Di questi 40 miliardi, 16,6 sono quelli puliti dai debiti, ovvero la posizione finanziaria netta totale (liquidità meno indebitamento): risorse che potrebbero contribuire a portare l’Italia alla crescita, se solo non vivessimo nell’incertezza. Se solo i mercati fossero più stabili.
«La centesima azienda familiare in classifica ha in cassa, tolti i debiti, oltre 47 milioni di euro — spiega Guido Corbetta, docente di Strategia delle aziende familiari dell’Università Bocconi —. Se pensiamo che un fondo di private equity medio raccoglie 50 milioni di euro è come se le imprese avessero le risorse di centinaia di fondi di private equity».
Come si vede nel grafico pubblicato, il posto in classifica di ciascuna azienda è diverso a seconda dell’indicatore che si prende come riferimento, se la pfn, oppure i ricavi o il margine operativo lordo-Ebitda (dove si trova il trattino significa che l’azienda non è tra le prime 100 posizioni per quell’indicatore); non si trova, il maggior gruppo familiare italiano, perché nell’ultimo bilancio disponibile aveva una posizione finanziaria netta negativa. È il risultato di uno studio, il primo che affronta questo argomento, realizzato da Guido Corbetta e Fabio Quarato, docenti Bocconi, in occasione di Family Business Festival, l’evento organizzato dal Corriere della Sera e L’Economia, con Bocconi e Aidaf, che si svolge dal 4 al 6 aprile prossimi a Brescia.
I nomi
La maggior parte di queste imprese non eroga dividendi e tiene le risorse «in cassa», pronte a essere reinvestite. Ma, spesso, non lo fanno: «Secondo il nostro studio sui dividendi (pubblicato su L’Economia il 18 marzo, ndr), su quasi 2mila aziende familiari che hanno prodotto utili, il 54,7% non ha distribuito niente», aggiunge Corbetta. Le eccellenze non fanno parte soltanto dei più prevedibili settori di spicco del made in Italy.
Certo, nelle prime posizioni ci sono colossi come Armani, con 1 miliardo. In alcuni casi, come quello di Luxottica, sono i ricavi oltre i 9 miliardi a generare una posizione finanziaria netta di 408 milioni. Accanto ai grandi brand ci sono anche nomi meno noti che pure hanno una grande solidità. È il caso della pavese Teofarma, guidata da Carla Orestina Anna Spada, specializzata nella commercializzazione di farmaci; o della monzese Euroitalia, guidata da Giovanni Sgariboldi, attiva nella commercializzazione di profumi nel segmento lusso. Ancora, la classifica mette in evidenza imprese manifatturiere che mostrano l’eccellenza tecnologica italiana in settori di nicchia. È il caso, per esempio, di Merlo, società piemontese leader di mercato nei sollevatori telescopici a torretta girevole e nei sollevatori telescopici a trasmissione idrostatica, che esposta oltre il 90% della produzione.
Il segreto
«La chiave di volta è proprio la specializzazione verticale — commenta Innocenzo Cipolletta, presidente Assonime e Aifi —. E la specialità italiana sono i costruttori di componenti, quelle che contengono la maggiore tecnologia. Si pensi al mercato dell’auto: l’innovazione è nei freni, nella batteria nella frizione. Chi fa componenti e investe in ricerca e sviluppo e ha un vantaggio competitivo maggiore. L’Italia è ricca di imprese di questo tipo. Pensate a Forgital, che produce i motori per le Rolls Royce, o Lucchini che fa ruote per i treni ad alta velocità. È in settori di nicchia che abbiamo l’opportunità di essere leader. E di crescere».
Nella Top20 c’è anche Maire Tecnimont, tra i principali contractor di impiantistica e ingegneria oil&gas e petrolchimico su scala globale, guidata dalla famiglia Di Amato. Il presidente Fabrizio Di Amato ha avviato l’attività a 19 anni con tre dipendenti, poi ha consolidato il gruppo nel corso di tre decenni, con crescita interna e acquisizioni a livello nazionale e internazionale, a partire da quella di Fiat Engineering, nel 2004. Vola alto anche il farmaceutico familiare, con diverse aziende in classifica, prima fra tutte la Menarini (intervista nella pagina accanto), al secondo posto.
Ma perché, a fronte di una liquidità così importante, gli investimenti delle imprese familiari italiane sono fermi al palo? «A volte è recente, magari in seguito a dismissioni, come nel caso di Edizione, e sono ancora in cerca di investimenti interessanti — conclude Corbetta —. In molti altri casi le famiglie decidono di non investire, a causa della poca propensione al rischio, ma soprattutto del clima di incertezza generale». Incertezza a livello politico ed economico in Italia ma anche a livello europeo e globale, a partire da Brexit passando per la pericolosa guerra commerciale tra Usa e Cina. Ma senza investimenti, si smette di crescere.
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