La perdita di posti di lavoro provocata dall’automazione accende il dibattito su redditi minimi e sostenibilità dei sistemi pensionistici. Chi pagherà le future pensioni? Il precedente della Seconda Guerra Mondiale
di Sergio Sorgi*
Una delle più recenti fonti di attenzione e ansia è costituita dalla possibilità che l’automazione sottragga posti di lavoro. La portata e la velocità di questo fenomeno non sono preventivabili; vi sono tuttavia alcuni studi non proprio rassicuranti (tra cui il Working Paper 189 dell’Oecddel 2016, il rapporto del McKinsey Global Institute del 2017 e quello di Pwc del 2018). Gli studi pessimistici considerano che l’automazione possa sostituire interamente posti di lavoro e quelli più possibilisti stimano che ci sarà automazione di alcuni singoli compiti specifici ma non sostituzione integrale di un lavoratore con un automa.
Le ipotesi più catastrofali, quelle che evidenziano i rischi di totale automazione, arrivano a ipotizzare 800 milioni di posti di lavoro persi nei prossimi 10-20 anni, con una quantità di lavoratori vicini al 50% che potrebbero essere minacciati dall’automazione. Le ipotesi più soft invece, orientate ai singoli compiti, misurano dal 6 al 12% i posti di lavoro a elevato rischio di sostituibilità (si veda tabella pubblicata in pagina). Ci sono poi ricerche sull’individuazione dei lavori a rischio: tra questi emergerebbero i lavori a bassa qualificazione, i compiti che non richiedono confronto con altri lavoratori e i lavori legati a vendita o distribuzione, a causa di consumatori che privilegeranno sempre più canali diretti di comparazione e acquisto.
La probabile ascesa dell’automazione pone almeno tre riflessioni costruttive. La prima, di ordine filosofico, considera una società senza lavoro e invita a ricostruire l’identità di una persona «oltre» il lavoro. L’uomo infatti non è solo lavoro ma anche azione, contemplazione, passione. La diminuzione di lavori «classici» potrebbe essere peraltro compensata con lo sviluppo di attività utili alla collettività. Se poi l’automazione riguardasse solo alcuni compiti specifici, potremmo lavorare non «in meno» ma «di meno», recuperando tempo per le dimensioni personale, privata, affettiva (e di consumo).
Seconda riflessione: come conciliare la stabilità economica dei cittadini e dei pensionati con la perdita di redditi da lavoro? La soluzione teoricamente potrebbe essere trovata nei redditi di base universali, ma dietro questa etichetta generica si celano diversi strumenti, ciascuno con caratteristiche proprie e impatti economici sui bilanci pubblici. Per sostenere chi non ha sufficienti risorse si può pensare all’attuale reddito di inclusione (Rei), una misura di contrasto alla povertà che viene erogata a coloro che non dispongono di risorse economiche sufficienti, oppure a un reddito di partecipazione, che viene dato a coloro che non hanno risorse economiche a patto che siano disponibili a lavorare. Vi è poi il reddito di base incondizionato, fornito a tutti, anche a chi lavora, e il reddito di cittadinanza, che viene erogato a ciascun cittadino nell’intero corso di vita ma selettivamente, in funzione dell’età o della residenza da un certo numero di anni. Ancora diversa è l’imposta negativa, che consente a chi ha un reddito inferiore a una data soglia di ricevere un sussidio invece che di pagare imposte. Un’altra forma di sostegno è quella del cosiddetto conto sabbatico, un credito decennale al quale tutti potremmo attingere in qualsiasi momento per periodi minimi di sei mesi e per compensare momenti di discontinuità reddituale, lavorativa o per gestire l’attesa del raggiungimento dell’età pensionabile. Infine ci sono una serie di dotazioni in capitale e non in reddito.

Terza riflessione: ammesso che i redditi minimi sostengano le economie personali e familiari e che siano compatibili con il bilancio pubblico, con quali risorse si potrà sostenere e sviluppare il consumo (e il risparmio) necessari a sostenere l’attuale sistema economico e finanziario? L’attuale sviluppo economico si deve in buona parte all’intuizione di Henry Ford di aumentare il reddito da lavoro dei suoi dipendenti per trasformarli in consumatori; domani se le imprese saranno in grado di ottenere profitti senza lavoratori da dove deriveranno i redditi familiari necessari a consumare quel che si produce e a risparmiare?

In tutti i casi, chi non lavora non guadagna, non paga imposte e non versa contributi e dunque l’automazione mette in crisi i welfare basati sulla redistribuzione di imposte e contributi sul lavoro. L’esito possibile di tutto ciò è un futuro pensionistico con pensioni assenti o comunque insufficienti; bisogna peraltro ricordare che anche le pensioni di inabilità e superstiti si calcolano in base ai contributi versati e pertanto l’ampiezza del problema è davvero rilevante.
Inoltre la discontinuità contributiva influisce sull’età di pensionamento; è di questi giorni l’allarme del presidente dell’Inps Tito Boeri, che, avendo analizzato le disoccupazioni medie dei nati nel 1980, ipotizza che molti potrebbero andare in pensione non prima dei 75 anni di età. Che cosa accadrebbe se le discontinuità occupazionali diventassero frequenti a causa di lavori «sostituiti»? Ed escludendo l’ipotesi che gli Stati moderni cancellino le politiche di welfare (il che appare poco probabile anche perché in un Paese che invecchia i voti dei pensionati sono rilevantissimi), che fare?
Qui la storia, in verità, qualcosa ci insegna: iniziando dal panorama internazionale, le pensioni basate sui contributi pagati dal lavoro sono state alla base dei sistemi pensionistici di gran parte d’Europa fino al 1941. Da lì, con il conflitto bellico e le sue ripercussioni occupazionali, le cose cambiarono. In quell’anno infatti il Fronte Tedesco sul Lavoro sostituì il sistema basato sui contributi versati dai lavoratori con un sistema assistenziale finanziato dal prelievo fiscale e finalizzato ai minimi vitali per i beneficiari «degni» di assistenza (legati, data la matrice nazionalsocialista, al rispetto di comportamenti stabiliti e all’appartenenza alla razza ariana). Questa assistenza odiosamente selettiva divenne un modello di progresso universale grazie a Lord Beveridge, che nel 1942 introdusse nel Regno Unito un sistema di diritti di base che accompagna tutti i cittadini dalla culla alla tomba indipendentemente dalle proprie capacità reddituali. Anche in Italia dal 1947 si passò dal sistema pensionistico basato sulla capitalizzazione individuale dei versamenti del lavoratore a un sistema basato su un patto generazionale tra giovani che versano e pensionati che ricevono. E quarant’anni fa si passò dalle mutue al sistema sanitario nazionale.
In sintesi, quando l’occupazione non è sufficiente a garantire un sistema pensionistico basato sui contributi da lavoro, gli Stati intervengono sciogliendo i legami tra assistenza, previdenza e singola capacità contributiva e realizzando welfare universalisti, finanziati dalla fiscalità. Queste scelte per la prima volta potrebbero essere rese necessarie non da un conflitto ma da una silenziosa moltitudine di automi, da noi creata e che richiede nuovi welfare, nuove forme di finanziamento e nuove modalità di sostegno per chi lavora e per chi, legittimamente, vorrebbe poter accedere al pensionamento per raggiunti limiti di età. (riproduzione riservata)
*Progetica
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