I bandi di gara aumentano, ma l’incertezza normativa e le procedure bloccano i cantieri
Pagina a cura di Giovanni Galli
Codice dei contratti pubblici da mantenere o da sostituire con le direttive europee; soft law da conservare o ripristino del regolamento del 2010; immediato intervento sul Codice con un decreto-legge o approvazione di un secondo decreto correttivo. Sono questi i principali «dubbi amletici» che ha lasciato l’esperienza della riforma del 2016 della legislazione sui contratti pubblici, fortemente voluta dal governo Renzi e attuata fra mille difficoltà. E questo nonostante negli ultimi due anni il numero e il valore dei bandi sia comunque cresciuto, in misura sensibile per quanto riguarda i servizi tecnico-professionali (nel 2017 +34,6% in numero e +319,0% in valore sul 2016 fonte: Oice) e più di recente anche nell’ambito dei lavori pubblici (primo trimestre 2018 +18,6% in numero e +37,6 per cento sull’analogo trimestre del 2017, fonte: Cresme).
Quindi un primo dato sembra incontrovertibile: i bandi di gara sono aumentati.
Ma, ovviamente, pubblicare un bando non significa vedere aperti dei cantieri, se è vero che dall’affidamento di un contratto di progettazione alla pubblicazione di un bando per l’appalto di lavori passano in media almeno due anni e che per le grandi infrastrutture servono anche dieci anni prima di aprire i cantieri (così dice il Def Infrastrutture che a breve sarà presentato).
Un secondo dato è altrettanto incontrovertibile: le imprese di costruzioni sono ormai in «codice rosso» e il codice è finito sul banco degli imputati, unitamente alla lentezze delle procedure approvative. Per il presidente dell’Ance, Gabriele Buia, «le norme sono incomprensibili anche per le pubbliche amministrazioni che le devono applicare: bloccano le opere, ma non l’illegalità. Occorre subito rimettere mano al Codice appalti e eliminare le procedure farraginose: ci vogliono troppi anni per aprire i cantieri necessari per il benessere e la sicurezza».
Un fronte ancora più ampio (Manifesto della filiera delle costruzioni, dalle cooperative, agli artigiani, alle Pmi e ai progettisti) aveva in precedenza chiesto di «ripensare il Codice e di predisporre un articolato più semplice accompagnato da un unico regolamento attuativo, dotato di forza cogente, in cui far confluire la normativa di dettaglio e le linee guida Anac».
Qualcun altro ancora suggerisce di buttare a mare il Codice dei contratti pubblici e fare riferimento alle sole direttive europee.
Da ultimo la stessa Ance suggerisce una doppia strada: un decreto-legge «per consentire alle amministrazioni di far partire i lavori», con modifiche su alcuni punti specifici del codice (in primis il subappalto, oggetto di esposto Ance alla Ue), e poi «una nuova riforma dotata di un regolamento attuativo che restituisca la certezza del diritto».
Quindi un terzo dato sembra anch’esso consolidarsi: l’intervento, più o meno ampio, sul codice dei contratti, anche per snellire le procedure. Ma sul come intervenire rimangono i «dubbi amletici», a partire dal destino della cosiddetta «soft law» fondata su linee guida dell’Anac, a volte vincolanti e volte no, e quasi sempre impostate come «suggerimenti e indicazioni» di best practices lasciate alla discrezionalità delle stazioni appaltanti.
Non ha certo giovato al sistema l’approvazione del decreto correttivo del 2017, che ha costretto l’Autorità a rimettere mano alle linee guida emanate nel primo anno.
Adesso sono state tutte o quasi aggiornate (e meritoriamente l’Anac è anche intervenuta colmando vuoti derivanti dall’abrogazione delle norme regolamentari), ma il problema rimane l’efficacia di queste regole e la loro presa sulle amministrazioni, di cui gli operatori economici cominciano a denunciare l’eccessiva libertà e disomogeneità dei comportamenti in assenza del regolamento che aveva accompagnato il precedente codice del 2006.
E qui forse sta il punto fondamentale da risolvere, oltre a quello della cosiddetta «sburocratizzazione» necessaria a fare spendere le risorse stanziate soprattutto per le grandi opere: le amministrazioni devono essere «imbrigliate» in regole vincolanti o devono essere lasciate libere di muoversi fra diverse opzioni?
Infatti sorge il dubbio che siano le stesse amministrazioni (e i loro Rup) ad avere bisogno di norme chiare, che individuino percorsi certi, comportamenti doverosi e scelte il più possibile oggettive. Avevano un regolamento da applicare fin dai tempi della Legge Merloni, con i suoi pregi e difetti, e la sostituzione con le linee guida (parziale visto che sono ancora in vigore circa 150 articoli su 357 del dpr 207) sembra non essere stata digerita da molti che, nel dubbio, per non incorrere negli strali della magistratura, si fermano.
© Riproduzione riservata
Fonte: