La società di gestione alla ribalta per il rendimento della sua azione: 11% tra cash e assegnazione titoli. A beneficiarne in primis chi lavora nel gruppo. Che mira ad avvicinarsi al 25% del capitale
di Lucio Sironi
Grazie a un dividendo di 2 euro su un valore di borsa che si aggira sui 17,5 euro, quindi con uno yield a questi valori dell’11,4%, Azimut , holding di un gruppo di media taglia nell’arena del risparmio gestito italiano (oltre 50 miliardi di patrimoni in affidamento, di cui 40 in strumenti di gestione), si è guadagnata gli onori delle cronache collocandosi ai vertici delle graduatorie per rendimento azionario. Non si tratta di 2 euro cash (sarà un euro in denaro e uno in azioni, che saranno distribuite in misura di una ogni 18 possedute), ma la sostanza cambia poco. Anzi, cambierebbe di molto, e in senso migliorativo, se si avverasse la profezia lanciata dal presidente Pietro Giuliani, che già un anno fa ha ipotizzato una triplicazione del valore del titolo, fino a 50 euro entro la fine del 2019, quando si esaurirà il piano industriale in corso. Eccesso di ottimismo? Il ragionamento del fondatore di Azimut è lineare: guarda ai titoli dei concorrenti, constata che sono scambiati a multipli più elevati rispetto ad Azimut pur facendo meno utili, ne tira le conseguenze.
In attesa di vedere se il mercato tra 20 mesi sarà della stessa opinione, Giuliani, insieme all’ad Sergio Albarelli, che dall’ottobre 2016 è alla guida del gruppo, al responsabile della sgr italiana e della rete di consulenti Paolo Martini e al cfo Alessandro Zambotti, mantengono la barra a dritta, vale a dire alla crescita mese dopo mese della raccolta, profittando anche di una fase di mercati ben impostati. Il tutto percorrendo una rotta che nel panorama italiano spicca per originalità e che finora anche gruppi di dimensioni ben più importanti hanno preferito evitare, ossia lo sviluppo su mercati internazionali ove replicare il modello della gestione di patrimoni fatta in casa (global team composto da 90 persone) affiancata alla distribuzione attraverso una rete di consulenti finanziari, che in Italia conta su 1.650 professionisti e all’estero su 350 figure analoghe, sia pure con diverse caratteristiche a seconda delle legislazioni vigenti. Attraverso questo percorso Azimut oggi può dire che il 25% del patrimonio affidato alle sue cure è stato raccolto tra clientela straniera, grazie a una paziente campagna di acquisizioni condotta non solo su piazze finanziarie consolidate come Svizzera e Montecarlo, ma soprattutto sugli emergenti, dalla Cina (dove da poco ha ottenuto la licenza di private fund manager) alla Turchia, dal Medio Oriente al Sudamerica, fino all’Australia. Anche in questo caso la ricetta è semplice: mettere con cautela un piede in mercati ben più arretrati rispetto all’Italia, nell’attesa che compiano lo stesso cammino di sviluppo industriale e di conseguente crescita di ricchezza delle famiglie, da destinare non solo ai consumi ma anche agli strumenti di risparmio.
Funzionerà? L’investimento – che ha dalla sua il pregio di diversificare il rischio – è sul lungo periodo, condotto a piccoli passi, anche se messi insieme rappresentano un investimento da centinaia di milioni. I primi a crederci sembrano essere loro, i timonieri, il presidente in primis, che dopo aver liquidato nel maggio 2015 una quota di poco superiore all’1% del capitale per un incasso netto di circa 32 milioni, ha avviato un piano di riacquisto titoli che lo vede impegnato in una sorta di pac (piano d’accumulo), simile a quello proposto ai suoi clienti, su azioni Azimut portato avanti a colpi di 100 mila euro al mese. Sia pure per importi inferiori, il modello è stato esteso a gran parte dei dipendenti e consulenti del gruppo, circa 1.200 dei quali ha aderito alimentando a sua volta un personale piano rateale d’investimento. Le loro azioni confluiscono in una fiduciaria, chiamata Timone, che riunisce gli aderenti in un patto di sindacato e rappresenta di gran lunga il primo azionista di Azimut , avendo ormai avvicinato quota 15% del capitale. Mentre altre quote significative sono nelle mani di investitori istituzionali, quasi tutti stranieri (nessun è profeta in patria) che perlopiù le hanno acquistate a beneficio dei loro fondi comuni.
Ma il secondo pacchetto azionario per importanza è a sua volta fatto in casa, trattandosi né più né meno che di azioni proprie, titoli che la società stessa ha comprato negli anni, spesso approfittando di momenti di quotazioni particolarmente depresse, e da cui ora si è deciso di attingere proprio per alimentare il famoso dividendo di 2 euro su cui l’assemblea dei soci sarà chiamata a decidere martedì 24 e che con tutta probabilità passerà all’incasso entro maggio. Le azioni proprie scenderanno così da oltre il 10% a circa il 5% del capitale, ma la società ha già in tasca una delibera che le consente di salire fino al 20%, per cui nulla osta a che il buyback possa proseguire, soprattutto se le condizioni di mercato torneranno a essere favorevoli, almeno secondo la visuale di Giuliani, che come si sarà capito ritiene il suo titolo molto sottovalutato.
Del resto le munizioni abbondano: pagato il ricco dividendo, accantonato quando indispensabile per alimentare la crescita perlopiù oltre confine con ulteriori acquisizioni, parte della liquidità disponibile è destinata al buyback, strumento che consente a sua volta a chi lavora in Azimut di contare sempre di più nella società e percepirne gli utili. Per la stessa ragione Giuliani e il management hanno scelto, per esempio, di rimborsare anzitempo un’obbligazione convertibile da 250 milioni emessa nel 2013, che alla scadenza del 2020 avrebbe potuto essere trasformata in nuove azioni: si è preferito riconoscere ai sottoscrittori del bond un premio del 10%, in pratica ricomprando anticipatamente quei titoli che si sarebbero dovuti emettere portando il prestito alla scadenza.
Ma il passo più recente, compiuto con la stessa logica, risale a gennaio, quando Timone Fiduciaria ha avviato lo studio di un rafforzamento della partecipazione in Azimut , che potrebbe avvenire con l’acquisto da parte del patto, a leva o assistito da un finanziamento, di azioni sino al 10% (per non superare la soglia d’opa del 25%). In questa fase si stanno appunto definendo termini e condizioni dell’operazione.
La convinzione non manca, insomma, né poteva essere diversamente guardando alla storia di Giuliani e di Azimut fin dalle origini: osteggiato dal sistema bancario per il suo modello che ne era l’antitesi, snobbato dai grandi gruppi nazionali, di fatto una macchina da soldi che continua a funzionare a dispetto dei tanti critici. Lui, il presidente, aspetta sulla riva del fiume che i fatti gli diano ragione. Non sarebbe la prima volta. (riproduzione riservata)
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