di Francesco Ninfole
Il credito in Italia non riparte. I tassi pagati da famiglie e imprese sono in calo, soprattutto per effetto delle manovre Bce, ma i volumi non mostrano rilevanti segnali di miglioramento. Il credit crunch si è addirittura aggravato a febbraio, secondo i dati di Banca d’Italia pubblicati ieri.
I prestiti al settore privato sono scesi del 2% su base annua, un calo che non si registrava da ottobre (-1,8% a gennaio). I dati sono risultati ancora peggiori per i crediti alle imprese, che sono diminuiti del 3% (anche in questo caso sui livelli di ottobre; a gennaio la discesa era del 2,7%). Si è confermato il lieve miglioramento dei prestiti alle famiglie (-0,4%, invece del -0,5% di gennaio), che è dovuto innanzitutto alla ripresa dei mutui, la tipologia di credito più sicura. Le buone notizie tuttavia riguardano soprattutto i tassi, in discesa su tutti gli ambiti, grazie all’abbassamento dei costi della raccolta delle banche legati ai rifinanziamenti a costo zero forniti dalla Bce. I tassi alle imprese sono scesi sia per gli importi fino a un milione di euro (da 3,39 a 3,26%) che per importi superiori alla soglia (da 1,97 a 1,83%). Stesso andamento anche per i tassi dei mutui (scesi da 3,07 a 3,01%) e del credito al consumo (da 8,71 a 8,64%). I depositi hanno continuato a salire (+4,3% da +5%) e il calo della raccolta obbligazionaria (da -18 a -19% soprattutto a causa dei titoli detenuti dalle stesse banche).
La speranza di molti era che i volumi dei prestiti potessero ripartire in modo più spedito dopo ottobre, quando sono stati pubblicati i risultati dell’asset quality review e degli stress test. In effetti la direzione del credito nei mesi successivi all’esame Bce sembrava quella giusta: la flessione dei valori stava rallentando, come si può vedere dalla tabella in pagina. A febbraio, invece, c’è stato un nuovo peggioramento. Si vedrà nei prossimi mesi se è stato solo un episodio. Di certo, finché la tendenza sarà questa, non ci potrà essere una vera ripresa economica in Italia. Per il momento non si riesce a invertire quella spirale negativa tra contrazione del credito, crescita zero e deterioramento dei bilanci degli istituti. Anche a febbraio le sofferenze sono aumentate del 15,3% su base annua (+15,4% a gennaio).
Le banche hanno rafforzato gli indicatori patrimoniali in vista dell’asset quality review: per riuscirci, ha calcolato Crif, hanno aumentato il capitale di 15 miliardi e ridotto i prestiti di 41 miliardi (si veda MF-Milano Finanza del 7 aprile). Lo sforzo è servito: a parte i deficit individuati nei casi di Mps e Carige, il sistema si è mostrato solido. Ci sarebbero ora i margini per aumentare il credito, sfruttando anche T-ltro e Qe. Ma gli istituti hanno ancora timore di allargare i cordoni del credito soprattutto per due ragioni: l’elevata rischiosità dei prestiti (mentre gli investimenti in titoli di Stato sono saliti anche a febbraio da 416 a 423 miliardi) e la preoccupazione di nuove strette sui requisiti patrimoniali da parte di Bce, Eba e Comitato di Basilea. Nei bilanci delle banche resta il fardello dei crediti deteriorati: Abi e Cerved prevedono un miglioramento dei flussi di ingresso in sofferenza, ma lo stock rimarrà elevato, anche a causa dei lenti tempi di recupero. Perciò il governo sta lavorando a soluzioni come un veicolo per lo smobilizzo dei prestiti dubbi, come la deducibilità in un anno degli accantonamenti su credito e come la riforma delle regole concorsuali e fallimentari. «Le banche, pur volendo cedere i crediti deteriorati, trovano sul mercato compratori a prezzi particolarmente bassi», ha osservato il governatore Ignazio Visco ad Avvenire. «Un intervento pubblico può servire ad attenuare gli effetti dei tempi lunghi di recupero e a liberare risorse per erogare nuovi prestiti, anche attraverso una partecipazione diretta alla gestione e al recupero dei crediti deteriorati». (riproduzione riservata)