di Angelo De Mattia
Concentrarsi solo sulla progettata maggiore tassazione delle plusvalenze relative alla partecipazione delle banche e di altri intermediari al capitale della Banca d’Italia è certo limitativo, alla luce del complesso impianto del Def. Può poi, questa concentrazione, essere scambiata per una opposizione di banchieri e bancari, quando tale non è e non deve essere; oppure, essere confusa con manifestazioni rivendicazioniste provenienti dal mondo delle banche ovvero, ancora, una propensione a ribaltare l’ordine delle priorità dei problemi che il documento solleva. Ma così non è, se si va alla radice della questione che involge una tematica di carattere generale, alla quale dovrebbe essere particolarmente sensibile chi si pone l’obiettivo di ristrutturare la Pa, semplificare, tagliare, rinnovare tutto il possibile nella burocrazia.
In effetti, occorre riandare alla decisione di riconoscere per legge ai partecipanti al capitale di Via Nazionale il maggior valore delle loro interessenze. Il punto cruciale è se questo sia stato un atto dovuto, dopo 78 anni di non variazione del valore originariamente fissato in 300 milioni, tradotti poi in 156 mila euro, o una sorta di agevolazione, per non dire favore o dono, alle banche. Il premier Renzi, pur non esprimendo formalmente il concetto di favore, ha tuttavia legato il rilevante aumento della tassazione all’avvenuto riconoscimento della plusvalenza, da cui bisognerebbe dedurre che quest’ultimo poteva come non poteva essere deciso. È ovvio che, se si ragiona così, se cioè si ritiene che l’aumento del capitale di Bankitalia a titolo gratuito a 7,5 miliardi sia stato una sorta di erogazione liberare ai quotisti, allora ogni intervento impositivo dello Stato si giustifica se non dal punto di vista dello stretto diritto, almeno sotto il profilo sostanziale. E se di ciò il governo fosse convinto, allora, altro che incremento della tassazione: ben altro, delicato problema avrebbe dovuto sollevare. E, invece, il riconoscimento non solo è legittimo, ma anche pienamente dovuto, come accadrebbe in ogni società. Nel caso, si trattava, in più, di distinguere nettamente i diritti economici dei partecipanti da quelle parti delle riserve formatesi con l’esercizio in via esclusiva, da parte dell’istituto, di funzioni fondamentali, a cominciare dall’emissione di banconote (con il connesso signoraggio). Questa delimitazione dei diritti dei partecipanti è stata rigorosamente compiuta. Poi, si è colta l’occasione per introdurre ulteriori, importanti elementi di riforma nella governance dell’istituto. In sede di modifica legislativa (necessaria perché la fissazione del capitale della Banca era stata disposta con la legge bancaria del 1936) è stata prevista, come è noto, una imposta sulla plusvalenza in questione del 12%. In quell’occasione si sarebbe potuto decidere diversamente aumentando il livello della tassazione, ma si preferì non farlo perché gli istituti di credito erano stati già caricati di altri pesanti oneri fiscali. A questo punto, si poteva ritenere chiusa la vicenda, mentre le banche predisponevano i bilanci per le prossime assemblee annuali – dopo altri problemi sopravvenuti per una direttiva dell’Esma sull’appostazione contabile dell’operazione – nel presupposto, tra l’altro, della certezza dell’ammontare della predetta imposta.
Sopravviene, ora, la modifica anzidetta e solleva, accanto alla cruciale questione esposta all’inizio, una serie di altri problemi che vanno dall’intervento mentre, fissate le regole del gioco, questo si sta attuando alla specialità della imposizione su di una singola operazione, alla mancata considerazione degli effetti che il maggior onere può avere – mentre è in corso la verifica da parte della Bce degli attivi di bilancio delle principali banche – sull’erogazione del credito, per una traslazione di fatto dell’onere stesso o per la restrizione dell’ammontare dei prestiti concedibili: non sono grandissime cifre, tuttavia effetti collaterali non voluti potrebbero realizzarsi. Ai problemi che già gli istituti hanno e a quelli ai quali avrebbero dovuto dare più tempestivamente soluzione, rimediando ai ritardi e alle carenze della governance, dell’organizzazione e della selezione del merito di credito, ora se ne aggiungerebbe un altro, evitando di fare assumere alle banche la figura di vittime in una controversia nella quale stanno sicuramente dalla parte della ragione, mentre in altri versanti presentano strategie e comportamenti sicuramente da superare.
Ora negli ambienti dell’Abi non si esclude la presentazione di ricorsi nelle sedi giurisdizionali competenti, fino alla sollevazione della questione di legittimità costituzionale, se la specifica indicazione contenuta nel Def si tradurrà in legge. È, però, nell’interesse di tutti che la questione si risolva prima e che si trovi un equilibrato contemperamento delle opposte visioni già in sede di predisposizione della normativa. Non sarebbe di certo l’apertura di una vertenza formale la via migliore da seguire, così come non sarebbe produttivo un totale arroccamento governativo. E si prescinde qui dal considerare come il maggior onere richiesto dal governo sia destinato a concorrere alla copertura degli occorrenti 6,7 miliardi necessari per la concessione della ricordata quattordicesima: una copertura una tantum, laddove occorrerebbero fonti certe e permanenti. (riproduzione riservata)