Per la Tobin tax tricolore il volume delle transazioni, che rappresenta la base imponibile della tassa, è in calo del 30% a marzo, il primo mese di introduzione dell’imposta sulle transazioni finanziarie rispetto al periodo gennaio-febbraio quando non c’era. Uno spaccato della flessione rende però ancora più drammatici i dati. Sui mercati regolamentati, la borsa per intenderci, la flessione viaggia al 16%, mentre sugli scambi fuori borsa il crollo, secondo quanto risulta a ItaliaOggi, è almeno pari al 50%. In base ai flussi attuali all’appello mancheranno, dunque, almeno 300 milioni di euro a fronte di un previsto 1 miliardo di euro. Spostandosi sul fronte europeo la Tobin tax Ue, in discussione in queste settimane, andrebbe a incidere con nuovi costi per lo stato italiano per una cifra pari almeno a 150-170 milioni di euro. Su questo scenario l’Italia ha chiaramente fatto le barricate, minacciando il veto se non i titoli di stato non sono messi fuori dalla base imponibile.
Danni dunque per gli emittenti di corporate bond, titoli di stato e pronti contro termine, che tradotto vuol dire maggiori costi per imprese, stati e banche. Sono le conseguenze dell’applicazione della Tobin tax mini Europa, quella promossa da 11 paesi dell’Unione e in discussione proprio in questi giorni fra le diplomazie internazionali. A dirlo è uno studio della City di Londra, l’ente di promozione della piazza finanziaria inglese. Un giudizio di parte, dirà certamente qualcuno, e infatti l’aspetto più interessante della vicenda è che il suo principale sponsor non è oltre la Manica ma in Germania. Il governatore della Banca centrale tedesca, la potentissima Bundesbank, Jens Weidmann, ha dichiarato «che la tassa rischia di danneggiare il mercato dei rifinanziamenti bancari e quindi della liquidità in generale». Un parere che è destinato a pesare nel dibattito in corso. L’intero studio è pubblicato nell’home page dell’Eurex, la borsa dei derivati tedeschi, a conferma del clima di ostilità che si sta sollevando in Germania su questa imposta. Gli interessi in gioco sono molti, Francoforte è la quinta piazza finanziaria globale dopo New York, Londra, Tokyo e Hong Kong. Al di là della comunità finanziaria tedesca anche la Gran Bretagna è una forte oppositrice della tassa sulle transazioni finanziarie. Nel Regno Unito però sono passati dalle parole ai fatti e cosi il governo inglese ha presentato ricorso contro la tassa alla Corte di giustizia europea. Per avere un’idea dei danni che l’imposta farebbe all’economia inglese basti pensare che Londra concentra un terzo degli scambi valutari di tutto il mondo. La finanza pesa sul pil inglese per il 10%. «Se tassate i nostri prodotti finanziari, imporremo un’imposta sulle Ferrari e le Bmw», ha spiegato a ItaliaOggi un operatore finanziario della City. Il perimetro della tassa lo decidono gli 11 paesi che hanno deciso di adottarla, sembra essere la posizione del commissario europeo agli affari fiscali Algirdas Semeta, in risposta all’iniziativa inglese. Nella sostanza un muro contro muro.
Le cose in Europa attualmente continuano ad andare in modo non uniforme. L’Italia, infatti, ha approvato già una Tobin tax con la legge di stabilità per il 2013. La tassa è entrata in vigore sulle azioni da marzo e per i derivati da luglio 2013. Il fisco tedesco c’è l’ha a budget prevedibilmente dal 2016.
L’Italia al momento è dunque in grado di stimare anche i primi effetti della tassa, visto che risulta avere il ruolo un po’ di cavia. Mentre Borsa italiana ha subito una flessione degli scambi, le transazioni di titoli italiani sui mercati non regolamentati sono letteralmente crollate.
Borsa italiana è passata da una media giornaliera di 2,60 miliardi di euro scambiati nel periodo gennaio-febbraio ai 2,34 del mese di marzo (-16%). In assenza di miglioramenti, il bilancio a fine anno sarà di almeno 100 miliardi di euro persi.
Quanto ai mercati non regolamentati, sulla piattaforma Boat, una delle più rappresentative del segmento, si è passati dai 18 miliardi di euro scambiati a febbraio (quando non c’era la tassa) al miliardo di marzo, un calo di ben il 94%. La contrazione degli scambi sui mercati otc (over the counter, cioè scambi che avvengono fuori dalle borse) era prevedibile, ma certo non in questa misura. L’aliquota che colpisce gli scambi di titoli italiani su mercati non regolamentati è quasi doppia rispetto a quella dei mercati regolamentati e degli Mtf (sistemi multilaterali di negoziazione), ovvero 0,22% contro 0,12%. Il crollo totale degli scambi sui mercati over the counter produce effetti catastrofici anche sul gettito. Governo e parlamento avevano stimato di ricavare il 70% del bottino generato dalla Tobin tax proprio dai mercati azionari non regolamentati, 770 milioni di euro a fronte di un gettito complessivo di 1,16 miliardi. Alla luce dei dati che stanno emergendo l’attività dei mercati otc risulta quanto meno dimezzata, quindi all’appello, solo sulle azioni, mancherebbero almeno 350 milioni di euro, quasi un terzo del gettito.
Governo e parlamento non hanno tenuto conto poi del calo del gettito di altre imposte pagate dagli intermediari attivi in Italia e connesse ai mancanti scambi, oltre che, come accennato, alle loro difficoltà nell’assolvere l’imposta.
Le altre esperienze non sembrano al momento brillare per risultati. Secondo Cityam, quotidiano economico diffuso nella City di Londra, in Ungheria il gettito rischia di essere inferiore al 50% rispetto a quanto previsto. Il paese ha introdotto la tassa a inizio 2013 con un’aliquota dello 0,10%, analoga a quella italiana. In Francia le cose stanno andando anche peggio. Il governo transalpino ha introdotto un’imposta sulle transazioni su titoli a maggiore capitalizzazione ad agosto del 2011 con un’aliquota dello 0,20%. Su tutti poi prevale la fallimentare esperienza svedese degli anni 80.
Tornando all’Italia i titoli di stato sono esclusi dall’imposta mentre nella bozza europea sono colpiti con un’aliquota dello 0,10% da applicare al valore della transazione. Tradizionalmente qualsiasi imposta applicata al sottoscrittore di un titolo viene trasferita (traslata) sull’emittente. I costi aggiuntivi sul debito sarebbero per lo Stato Italiano pari a una cifra compresa da 150 a 170 mln di euro l’anno.
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