di Paolo Guida*
Gli ultimi 12 mesi hanno visto una profonda modifica della tassazione della ricchezza: è cambiata quella dei fondi comuni di diritto italiano e insieme a essa quella delle rendite finanziarie. È inoltre aumentato il bollo sulle comunicazioni riguardanti il deposito titoli ed è stata introdotta anticipatamente l’Imu. Il motivo trainante delle riforme è senz’altro stato quello della necessità di aumentare le entrate tributarie al fine di migliorare le prospettive per i conti pubblici italiani in un momento particolarmente delicato. Allo stesso tempo sono stati raggiunti alcuni importanti risultati ai fini di una maggiore armonizzazione dell’imposizione fiscale. Se escludiamo la misura riguardante la tassazione dei fondi di diritto italiano al realizzato, che pone rimedio a un’anomalia che durava da anni e che vedeva i fondi italiani penalizzati rispetto a quelli esteri, il quadro delle riforme tributarie recentemente approvate fa emergere prevalentemente due punti chiave che vale la pena sottolineare. Da un lato, l’evidenza di una variazione della redditività netta delle attività finanziarie e di una riduzione del gap tra la tassazione alla fonte dei redditi di natura finanziaria e quella dei redditi di altra natura; dall’altra un netto aumento dell’imposizione fiscale sulla ricchezza (sia mobiliare che immobiliare) rispetto ai redditi da lavoro. Queste due evidenze hanno implicazioni importanti per le scelte degli investitori privati. Intuitivamente gli effetti possono sintetizzarsi in questo modo: l’aumento della redditività netta dei titoli di Stato e delle obbligazioni a breve termine determina un aumento della loro quota nel portafoglio dalle famiglie, a svantaggio dello stock di azioni e obbligazioni non governative, la cui redditività netta si riduce. Inoltre, l’aumento dell’imposizione fiscale sulla ricchezza finanziaria ne determina una riduzione e conseguentemente una minor propensione al rischio, che fa diminuire la quota di asset rischiosi in portafoglio. A regime dovrebbe dunque registrarsi una migrazione di fondi dalle obbligazioni non governative e dalle azioni verso i titoli di Stato e gli strumenti di mercato monetario. Meno decifrabile è invece l’effetto sui fondi comuni e i prodotti assicurativi, sia per la natura composita di questi strumenti finanziari che per la complessità degli effetti in gioco (trend strutturali, tassazione sul realizzato, redditività netta variabile a seconda del profilo delle commissioni). Altri effetti della modifica delle aliquote sulle rendite finanziarie sono una minor volatilità dei rendimenti netti, la maggiore condivisione con gli investitori del rischio di mercato da parte dello Stato, un minor differenziale tra le diverse forme di tassazione dei redditi, l’aumento dell’effetto lock in, determinato dalla maggiore convenienza a differire il realizzo degli investimenti e dunque la tassazione, rendendo preferibili strumenti a bassa cedola come i titoli inflation-linked o gli zero coupon. In Italia si è tuttavia verificata un’altra svolta significativa. Nel cosiddetto decreto salva-Italia è evidente che il 62% delle entrate tributarie lorde derivi dalla tassazione sulla ricchezza e non da quella del reddito. Un’impostazione giustificata anche dall’elevata concentrazione della ricchezza in Italia. A ben vedere l’imposizione fiscale sulla ricchezza prevista dallo stesso recente decreto non è altro che un’imposta patrimoniale «non nominata», poiché prevede un inasprimento della pressione fiscale proporzionale allo stock di ricchezza finanziaria e immobiliare e non al reddito. L’aliquota effettiva media (0,2%-0,6% sulla prima casa, con aumento del moltiplicatore e detrazioni, 0,46%-1,06% sulla seconda abitazione e 0,15% sulla ricchezza finanziaria a regime) è proprio pari allo 0,5% proposto dall’Aiaf, con la differenza che la sua imposizione ha durata indefinita e coinvolge tutti i contribuenti. La scelta del governo Monti è stata dunque proprio quella di attenuare il più possibile l’imposizione fiscale sulla ricchezza (e dunque un’imposta patrimoniale) rendendola permanente e di durata illimitata. Sebbene tale approccio, per la sua gradualità e modesta intensità, abbia il difetto di contribuire probabilmente poco a ridurre il debito pubblico, ha gli indubbi vantaggi di essere politicamente accettabile, dare un contributo significativo all’azzeramento del deficit pubblico e spostare, almeno in parte, il target dell’imposizione fiscale dal reddito alla ricchezza, quest’ultima di solito meno facilmente occultabile da parte degli evasori fiscali. (riproduzione riservata) *vicepresidente Aiaf