Il sistema previdenziale di questo Paese, non soltanto quello dei liberi professionisti, affonda le proprie radici su due qualità tutt’altro che commendevoli: ignavia e cinismo.
L’ignavia di chi ha concepito sistemi retributivi sganciati dall’effettiva contribuzione versata e il cinismo di chi, preso quanto meno atto della insostenibilità della cosa, ha però concepito le riforme non come dei momenti in cui si transita tutti insieme verso un nuovo equilibrio, ma come momenti in cui creare fratture generazionali tra titolari di sedicenti diritti acquisiti e «titolari» del solo dovere di garantirli, senza poterli a loro volta conseguire.
I presupposti del conflitto generazionale, in previdenza, nascono da qui; e le giovani generazioni del «contributivo 100%», sono gli aggrediti, non certo gli aggressori.
Non esistono colpevoli specifici: ciascuno, nella convinzione di agire per il meglio, ha messo il proprio tassello, senza avere contezza del mosaico complessivo che andava però così formandosi.
I giovani, rispetto al loro futuro previdenziale, possono porsi in modo attento o disattento.
Se sono disattenti, versano il minimo di ciò che è a loro richiesto (e, non esistesse alcun minimo, nulla verserebbero), ma al tempo stesso non insorgono a fronte di iniquità di trattamento tra generazioni che sanno benissimo esserci, ma sentono appunto molto distanti da loro, come un po’ tutto ciò che riguarda la previdenza.
Se sono attenti, accettano di buon grado di versare di più e non vivono come imposizioni vessatorie eventuali incrementi delle aliquote minime obbligatorie (consapevoli che in un sistema contributivo chi versa poco non può avere una pensione adeguata), ma al tempo stesso trovano inaccettabile che ci sia chi consegue pensioni di molto superiori alle loro con versamenti di molto inferiori ai loro.
Chiunque, oggi, sia esso governo, sindacato, esperto della materia o vertice di una cassa o gestione previdenziale, parli di necessità di incremento dei contributi minimi obbligatori nei regimi previdenziali basati sul sistema contributivo, senza però al contempo riconoscere che si dovrà parallelamente mettere mano in parte, con pari realismo e spirito di sacrificio, ai benefici del sistema retributivo che sono stati lasciati persistere, denota l’arroganza di chi pensa di poter accendere e spegnere l’interruttore dell’attenzione a suo piacimento, ammaliando i giovani di questo Paese con giochi di luce ed effetti speciali.
Non può funzionare così e associazioni come l’Unione giovani dottori commercialisti, che da anni si batte per la diffusione della cultura previdenziale tra i giovani, anche al di fuori della categoria, faranno tutto quello che è nelle loro possibilità perché non avvenga.
Tra lasciare le cose come stanno e costruire una previdenza che, nel rispetto del vincolo della sostenibilità, riduca il divario tra trattamenti pensionistici delle diverse generazioni, agendo sull’aumento della contribuzione minima obbligatoria e sulla limatura dei benefici derivanti dalla sopravvivenza a se stesso del retributivo, preferiamo senza dubbio la seconda ipotesi.
Da chi gestisce la previdenza della nostra categoria, oggi come domani, ci aspettiamo una adeguata interlocuzione con i ministeri vigilanti: se questi ultimi osservano, come già hanno fatto, che è assurdo pensare di attribuire ai montanti pensionistici dei giovani quote di contributo integrativo in assenza di una disponibilità ad aumentare le aliquote minime di contributo soggettivo, facciano loro notare, insieme a noi, che esistono assurdità ben più grandi e vistose che, così ragionando, bisognerebbe allora andare a rimuovere.
Le aperture che abbiamo visto a Matera, in occasione della tavola rotonda dedicata alla previdenza, ci lasciano ben sperare che i dottori commercialisti possano essere gli apripista non solo nella deflagrazione del conflitto generazionale, sempre più inevitabile rebus sic stantibus, ma anche della sua risoluzione nel nome di un vero patto tra generazioni.