«Non è possibile versare pochi contributi e aspettarsi una pensione alta». Non ha dubbi Elsa Fornero, docente di economia presso l’università di Torino e coordinatore scientifico del Cerp (Centro di ricerca sull’economia delle pensioni e dell’invecchiamento), che in questa intervista fa il punto sulla situazione attuale della previdenza dei professionisti.

 

Domanda.

A distanza di 15 anni dalla privatizzazione, come vede oggi il futuro delle casse di vecchia generazione? Hanno fatto riforme sufficienti per garantire ai giovani la pensione?

Risposta. La privatizzazione delle casse di vecchia generazione non fu un provvedimento legislativo particolarmente ben congegnato. In particolare, con questo provvedimento le casse ottennero un’autonomia gestionale accompagnata da una sostanziale libertà nella definizione del disegno pensionistico, soprattutto per quanto riguarda la formula di determinazione della pensione. Di questa autonomia e libertà le casse, pur in modo diverso l’una dall’altra, hanno fatto uso in modo non del tutto positivo e lungimirante: alcune formule previdenziali sono scarsamente compatibili con l’equità di lungo periodo, il che innesca meccanismi di trasferimento di oneri sulle generazioni giovani e future, non diversamente da quanto era accaduto nel sistema pubblico. Infatti anche le casse, pur privatizzate, si affidano al meccanismo finanziario della ripartizione, un meccanismo che richiede un forte crescita degli iscritti e dei loro redditi, il che è chiaramente insostenibile nel lungo periodo. Consapevoli di questa contraddizione intrinseca, alcune casse hanno innovato il loro disegno previdenziale, sempre mantenendo il finanziamento a ripartizione ma passando dal metodo retributivo, più generoso, a quello contributivo, che si basa sull’equità attuariale propria dei mercati assicurativi. Il legislatore, a sua volta consapevole degli squilibri interni, è intervenuto imponendo l’utilizzo sia di proiezioni su un periodo più lungo, sia di parametri più realistici, con i quali pilotare la gestione delle casse nel breve-medio periodo: se i contributi non sono sufficienti, e si genera in previsione un disavanzo strutturale a partire dai 2-3 lustri successivi, le casse dovranno mettere in atto, sin da oggi, misure correttive di tale disavanzo.

D. Cosa ne pensa dell’invito alle Casse del ministro Sacconi di cominciare a pensare alla fusione fra enti per blindare la sostenibilità?

R. Mi sembra un invito saggio che le casse farebbero bene a considerare, attivandosi per arrivare a proposte concrete. L’autonomia gestionale è una buona cosa, ma nei sistemi pensionistici il rischio va diversificato e, di conseguenza, più sono le casse che si fondono, più contenuto appare il rischio di un’insufficiente crescita degli iscritti e/o dei redditi. Per di più, la moltiplicazione delle casse aumenta gli oneri amministrativi e gestionali, e riduce, a parità di altre condizioni, le risorse a disposizione per il pagamento delle pensioni. Per conseguenza, sia sotto il profilo della diversificazione del rischio, sia sotto il profilo dell’efficienza gestionale, l’invito del Ministro è benvenuto.

D. Vista la sproporzione fra chi è andato in pensione con un sistema (retributivo) e chi con un altro (contributivo), è pensabile toccare i diritti acquisiti e tagliare le pensioni più ricche in nome di una redistribuzione dei sacrifici?

R. Se limitiamo il discorso alle casse (anche perché nel sistema pubblico le riforme hanno inciso profondamente sull’aspetto dell’equità tra le generazioni), è chiara la sproporzione tra ciò che viene promesso alle giovani generazioni e ciò che è riservato alle generazioni anziane, utilizzando l’autonomia gestionale, e da queste difeso a oltranza. Le casse dovranno affrontare il tema dell’equità generazionale, non semplicemente ripristinando, anche a favore dei più giovani, formule indebitamente generose e non sostenibili, ma riequilibrando le prestazioni a scapito delle generazioni anziane, cioè chiedendo loro qualche sacrificio. Si tratta di un invito forte a passare al metodo contributivo, che rafforzerebbe la sostenibilità della gestione e che andrebbe proprio nella direzione dell’equità tra le generazioni.

D. Fino a quando, secondo lei, i giovani commercialisti (che hanno cominciato a versare a partire dal 2004 con il nuovo sistema contributivo) accetteranno un sistema come quello attuale in cui chi è in pensione in tre anni ha consumato tutta la sua dote previdenziale?

R. Il sistema contributivo vale dal 1995 per la generalità degli italiani, pertanto non si capisce come possano non accettarlo i giovani commercialisti. Il punto è un altro: la formula contributiva è equa, mentre quella retributiva toglie a chi ha meno, operando una redistribuzione iniqua. Non si tratta di penalizzare qualcuno, ma di eliminare i privilegi ingiustificati di qualcun altro (generalmente i più anziani). La domanda sottolinea un altro tema importante: la determinazione dell’aliquota contributiva. Se si contribuisce poco, la pensione non può che essere bassa. Le pensioni dei lavoratori iscritti alle gestioni Inps e Inpdap, che pur versano contributi pari al 33% della retribuzione lorda, saranno comunque meno generose del passato. Se i commercialisti vogliono ottenere una pensione equivalente devono parametrare la loro aliquota contributiva in modo da avere lo stesso risultato. Non è possibile versare pochi contributi e aspettarsi una pensione alta.

D. La fusione delle casse di dottori commercialisti e ragionieri migliorerebbe o peggiorerebbe le cose?

R. Sulla base di quanto risposto alla domanda 2, ritengo che la fusione sia una buona cosa. So che esistono ostacoli di natura giuridica, che non dovrebbero però indurre le due casse a tornare indietro. Anzi, mi auguro che il loro esempio sia seguito da altre casse.