È stato presentato in anteprima il Rapporto Clusit 2024, in cui i ricercatori dell’Associazione Italiana per la Sicurezza Informatica, hanno tratteggiato l’evoluzione degli attacchi dei cyber criminali a livello internazionale e italiano.
L’analisi restituisce una situazione allarmante per il nostro Paese. Dei 2.779 incidenti gravi analizzati a livello globale nel 2023 (+12% sul 2022.), l’11% sono andati a segno in Italia, per un totale di 310 attacchi, pari a un incremento del 65% rispetto al 2022.
Una crescita record: quasi la metà degli attacchi censiti in Italia negli ultimi cinque anni si sono verificati nel 2023. Tra questi, il 56% degli attacchi ha avuto conseguenze di gravità critica o elevata.
Secondo il Rapporto Clusit il settore maggiormente sotto attacco in Italia è quello governativo, con quasi il 19% dei colpi andati a segno, il doppio rispetto al 2022, mentre a livello globale è il manifatturiero il settore più colpito.
In Italia, l’aumento più consistente ha invece riguardato i trasporti e la logistica: colpito dal 12% dei casi, con un incremento del 620% rispetto al 2023. Anche il settore della finanza e delle assicurazioni, con il 9% di colpi del cybercrime in Italia, ha visto un aumento del +286% rispetto allo scorso anno.
Il presidente di Clusit, Gabriele Faggioli, ha detto che per rallentare e cercare di stabilizzare il trend, “devono essere concepite e adottate strategie nuove. Non aiutano la frammentazione di infrastrutture e servizi che caratterizza la cyber security nel nostro Paese, che rischiano di produrre una moltiplicazione di sforzi, ciascuno in sé poco efficace. Ricordiamo che il 2024 è un anno in cui si apriranno le urne per 2 miliardi di persone in 70 paesi del mondo, nell’era dell’introduzione della AI”.
A livello globale, gli attacchi degli hacker sono stati indirizzati principalmente nelle Americhe, che rappresentano il 44% del totale; 23% la quota degli attacchi in Europa, scendendo di un punto percentuale rispetto all’anno precedente; crescono di un punto percentuale gli attacchi in Asia (9% del totale) e rimangono sostanzialmente stabili in Oceania (2%) e in Africa (1%).