LA GIURISPRUDENZA SI SOFFERMA SULLA DEFINIZIONE DI RIFIUTO SULLA BASE DEL CODICE AMBIENTALE
di Vincenzo Dragani
Anche un comportamento omissivo può trasformare il proprietario di un bene nel produttore di un rifiuto, con il conseguente obbligo di avviarlo a trattamento nei modi e nelle forme previsti dal Codice ambientale, a pena di severe sanzioni. Il principio è rinvenibile nelle pronunce della giurisprudenza nazionale a cavallo del nuovo anno vertenti sulla storica definizione di rifiuto mutuata dalla disciplina unionale, in base alla quale è tale «qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi» (articolo 183 del dlgs 152/2006). E tra le ultime pronunce della magistratura assume interesse anche il provvedimento che, ribaltando il punto di vista, sanziona la condotta di chi illecitamente induce taluno a «disfarsi» di un proprio bene, conferendolo come un rifiuto.
Il disfarsi mediante omissione. Gli scarti di produzione che per essere riutilizzati a condizioni economicamente vantaggiose devono essere preventivamente sottoposti a trasformazione e di cui il loro detentore invece si libera nello stato in cui sono costituiscono giuridicamente dei rifiuti, e la loro relativa gestione deve avvenire nel rispetto del Codice ambientale.
Il principio è desumibile dalla recente pronuncia della Corte di Cassazione 20 gennaio 2022, n. 2234, vertente su uno sversamento su suolo, con relativo inquinamento del sottosuolo, di idrocarburi fuoriusciti dai serbatoi maltenuti di un complesso industriale di raffinazione. Per la magistratura la dispersione di tali sostanze integra gli estremi del «disfarsi» delle sostanze, con conseguente loro inquadramento come rifiuti ai sensi del dlgs 152/2006, e relativa condanna del loro ex detentore sia per il reato di inquinamento che di gestione illecita dei residui.
Nella fattispecie, la natura di scarti di produzione (in opposizione a quella di veri e propri prodotti, vantata dagli imputati) appare essere dalla Magistratura rinvenuta nella presenza, in prossimità delle aree maggiormente soggette alle fuoriuscite, di pavimentazioni e di sistemi per il convogliamento degli idrocarburi eventualmente sversati direttamente verso fogne oliarie.
Sulla necessità, invece, del previo trattamento ai fini del riutilizzo, il giudice di legittimità (ripercorrendo il solco tracciato dalla Corte Ue di giustizia) ha sottolineato come «lo sfruttamento e la commercializzazione di idrocarburi sversati o emulsionati con l’acqua o, ancora, agglomerati con sedimenti è un’operazione molto aleatoria se non addirittura ipotetica e, anche ammettendo che sia tecnicamente attuabile, presupporrebbe comunque operazioni preliminari di trasformazione che, lungi dall’essere economicamente vantaggiose per il detentore di tale sostanza, comporterebbero considerevoli oneri finanziari».
L’elemento soggettivo dell’illecito penale è infine stato indentificato dai giudici come dolo eventuale, quale consapevole e ponderata adesione all’evento dannoso: dolo desumibile da diversi e precisi indicatori, tra cui il degrado ambientale in cui già versava l’area interessata, il malgoverno delle procedure di manutenzione e di controllo dell’impianto nel suo complesso, lo stato fatiscente delle tubazioni del serbatoio interessato dalla perdita. Elementi tutti che facevano dunque della dispersione degli idrocarburi nel suolo «un evento annunciato».
L’obbligo (sopravvenuto) di disfarsi. Le norme che vietano l’utilizzo di determinati beni comportando per il detentore l’obbligo di disfarsene conferiscono agli stessi lo status di rifiuto, con conseguente necessità per questi di gestirli rispettando le disposizioni dello stesso Codice ambientale. E ciò anche se a prevedere il divieto di utilizzo è una disposizione successiva a quella che a suo tempo aveva invece permesso al detentore il lecito e perdurante impiego dei beni in parola. È il caso, come ricorda il Tar Campania 12 gennaio 2022, n. 70, delle traversine ferroviarie contenenti «creosoto», oggetto di un mutamento normativo che da un lato ha vietato l’impiego del legno trattato con tale sostanza pericolosa (salvo mirate deroghe) in molte applicazioni (tra cui parchi e giardini, prodotti ed imballaggi) e dall’altro lo ha classificato univocamente come rifiuto pericoloso (escludendolo anche dalla disciplina sul recupero agevolato).
Nella pronuncia vertente sulla legittimità di un’ordinanza sindacale di rimozione delle suddette traversine da una recinzione privata, il giudice amministrativo ha sottolineato come ex articolo 183 del dlgs 152/2006 l’obbligo di «disfarsi» di determinate sostanze o oggetti conferisce loro lo status di rifiuto e fa scattare il conseguente obbligo di avviarli a recupero o smaltimento. E qualora (come nel caso di specie) si tratti di rifiuti pericolosi non più ammessi a procedure semplificate di trattamento il loro recupero potrà avvenire solo se «l’utilizzo della sostanza o dell’oggetto non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana» (come chiesto dall’articolo 184-ter del dlgs 152/2006 sull’end of waste); nel caso tale condizione di recupero non sia dimostrabile, detti rifiuti andranno dirottati verso lo smaltimento.
E… l’induzione al disfarsi. Anche l’indurre il detentore di un bene a «disfarsene», trasformando il proprio prodotto in un rifiuto può integrare la commissione di un atto illecito. È il caso, affrontato dal Tar Lazio (con sentenza 9 novembre 2021 n. 11488), della condotta di un consorzio di raccolta di abiti usati, sanzionato dalla Autorità garante della concorrenza e del mercato per aver tratto in inganno i consumatori circa la reale destinazione degli indumenti conferiti nei propri cassonetti.
Ad avviso della Agcm (e del Tribunale amministrativo) integra infatti una pratica commerciale scorretta l’apposizione sui cassonetti di diciture che inducono i consumatori a pensare ad una finalità strettamente solidaristica della raccolta sottacendo invece quella commerciale che vede gli abiti raccolti e gestiti come rifiuti destinati anche a recupero o smaltimento. Anche ad avviso del Tar, infatti, è pienamente applicabile al fatto di specie la disciplina del Codice del consumo che sanziona le condotte dei professionisti (cui appartengono coloro i quali stabilmente offrono il servizio di raccolta rifiuti) che alterano il comportamento economico dei consumatori; alterazione che nel caso in questione è coincisa con l’indurli a «disfarsi» di propri beni prospettando una utilità (il soddisfacimento di finalità umanitarie) diversa da quella effettiva.
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