Luca Valaguzza
Il tema dei private asset è diventato di gran moda. Non passa giorno che non si legga sui giornali almeno una notizia sul lancio di un nuovo veicolo o un approfondimento sulle nuove possibilità di diversificazione. Non che questo sia un male. È, infatti, assolutamente corretto parlare di circolo virtuoso: da una parte gli investitori possono beneficiare di maggiori rendimenti e trovare diversificazione in un mondo di tassi negativi, dall’altra le aziende possono trovare forme di finanziamento alternative al canale bancario per supportare la propria crescita, per di più in uno scenario di forte contrazione economica a causa del Covid-19. Questa asset class è qui per restare, sia perché presenta profili di rendimento interessanti sul lungo periodo, sia perché consente di allontanarsi dalle dinamiche di volatilità o di flussi risk on/risk off che caratterizzano i mercati pubblici. Inoltre, abbiamo già assistito, tra il 2002 e il 2008, alla profonda delusione che si può generare quando si investe spinti dalla moda o dai facili entusiasmi con i fondi hedge, di fatto ormai spariti in Italia, al contrario delle strategie hedge, che continuano a essere presenti nei portafogli internazionali degli Hnwi. Tra l’altro, se è pur vero che la spinta alla diversificazione in investimenti alternativi è partita da istituzionali e Uhnwi dopo lo scoppio della bolla delle dotCom, nel caso dei private asset il perimetro si è ampliato notevolmente, coinvolgendo Hnwi, investitori affluent o perfino retail, grazie a nuove tipologie di fondi e agli enormi progressi in ambito fintech che creano molte nuove opportunità. Un ulteriore elemento a supporto dell’orientamento della ricchezza verso l’economia reale è dato dagli incentivi fiscali di cui beneficia l’investitore finale, un vantaggio non da poco per una scelta di lungo periodo e per una corretta allocazione del proprio portafoglio. I Pir alternativi, per esempio, presentano una defiscalizzazione sulle plusvalenze ampliata fino a 300 mila euro all’anno per cinque anni. L’investimento in startup innovative, a sua volta, beneficia di detrazione Irpef sugli investimenti nel capitale, maggiorata per il 2020 a quota 50% sui primi 100 mila euro (fino a 300 mila euro per le pmi) e al 30% per i successivi. Se i benefici fiscali accomunano queste due tipologie di investimento, le loro caratteristiche non potrebbero essere più diverse. I Pir alternativi sono a tutti gli effetti fondi, e come tali portano con sé dinamiche già note agli investitori, in primis la delega in bianco e la fiducia totale che necessariamente vanno accordate al gestore. Inoltre, quest’ultima è un’asset class completamente nuova, sulla quale, a oggi, nessuno degli attori che propongono i Pir alternativi può vantare un’esperienza consolidata o un track record. Queste differenze fanno sì che una delle due proposte non escluda l’altra. Se si vuole investire scegliendo direttamente le startup o le pmi, infine, esiste la possibilità di servirsi di piattaforme di crowdfunding o perfino di private crowdfunding, che di fatto propongono delle operazioni di club deal, coinvestimento, interamente online. Grazie al supporto del fintech, anche la forma di investimento in economia reale più «private» e di nicchia, il club deal, esce dalla sua dimensione locale per raggiungere vaste platee di investitori. Queste piattaforme affiancano banche e private banker, e di conseguenza la clientela finale, selezionando per loro le migliori scale up e pmi dopo una scrupolosa e attenta due diligence. Occorre che gli investitori siano consapevoli della vasta gamma di opportunità per investire in private asset, un’offerta così diversificata e vantaggiosa per le parti coinvolte che non può essere una moda del momento ma va vista come una nuova, permanente modalità per ottenere rendimenti più interessanti. (riproduzione riservata)
co-fondatore di Euclidea e partner di ClubDealOnline
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