Del Vecchio e Caltagirone stringono la presa su Mediobanca. Nel mirino c’è il futuro delle Generali, di cui hanno oltre il 10%. Mosse che accendono un faro sugli assetti di controllo della Galassia, più volte finiti sotto la lente dell’Antitrust
di Luca Gualtieri
In principio c’è stata Euralux, la finanziaria lussemburghese che nel 1973 rilevò da Montedison il 4,73% delle Generali e lo mise gelosamente sotto chiave. Per individuare il mandante sarebbe bastato scorrere la compagine azionaria del veicolo che ha ospitato gli Agnelli, i De Benedetti, i Ratti di Como, fino ai Ligresti che vi si installarono stabilmente attraverso la Sai. A mettere nero su bianco una verità già nota a molti nella comunità finanziaria ci pensò comunque Cesare Merzagora: «il vero proprietario della partecipazione di Euralux nelle Generali è in via Filodrammatici», dichiarò l’ex presidente delle Generali verso la metà degli Anni Ottanta. Per quasi 30 anni, attraverso il pacco di azioni parcheggiato nella finanziaria, la Mediobanca di Enrico Cuccia riuscì a controllare oltre il 10% del Leone, quota più che sufficiente per deciderne i destini. Un’ambiguità sciolta solo alla morte del banchiere siciliano quando la partecipazione passò stabilmente alla merchant. Nel frattempo il mondo era cambiato e certe disinvolture con cui Cuccia aveva gestito lo strettissimo rapporto tra Milano e Trieste avevano fatto il loro tempo. Non per caso proprio nel 2002, nell’ambito della fusione tra la Fondiaria e la Sai, l’Antitrust di Giuseppe Tesauro sollevò per la prima volta la questione del controllo di fatto. «La documentazione acquisita consente di affermare che Mediobanca detiene il controllo di fatto su Generali», esordiva l’authority nel provvedimento dell’ottobre 2002. Oltre ad allentare la presa di Mediobanca su Fondiaria e sul Leone, il confronto con l’Antitust contribuì ad aprire una nuova stagione per l’istituto milanese. Anche sotto la gestione di Alberto Nagel però il tema del controllo è carsicamente riaffiorato, per esempio in occasione dell’intervento di Unipol su Fonsai. Un punto fermo è stato messo soltanto nel 2018, quando l’Antitrust ha revocato tutti i paletti: « Mediobanca, né da sola, né unitamente agli altri azionisti di Generali titolari di una partecipazione sociale superiore al 2% del capitale ha mai detenuto in assemblea la maggioranza dei voti, assestandosi sempre al di sotto del 50% del capitale votante», riportava il provvedimento. Nel frattempo però altri fronti si sono aperti. Per esempio nel 2007 la fusione tra Unicredit e Capitalia pose il problema del peso che la banca allora guidata da Alessandro Profumo avrebbe assunto in piazzetta Cuccia. «Anche se la quota (in Mediobanca, ndr) sarà ridotta, la fusione con Capitalia consentirà a Unicredit di esprimere, tanto nell’accordo di blocco quanto nelle assemblee, una posizione unitaria che sarà certamente determinante nelle strategie di Mediobanca», spiegava il provvedimento con cui l’Antitrust autorizzava l’operazione. Per ottenere luce verde dall’authority Unicredit assunse una serie di impegni. La quota in Mediobanca ad esempio sarebbe scesa dal 18,07% all’8,68%, fermi restando alcuni paletti sul profilo dei compratori. In secondo luogo Unicredit sarebbe uscito dal Leone, impegnandosi a non stringere accordi con la compagnia finché fosse rimasto socio di Mediobanca. Ma soprattutto non avrebbe potuto aumentare la partecipazione nella merchant milanese, né direttamente né indirettamente. Malgrado tutto però, spiega ancora il provvedimento dell’Antitrust, Unicredit avrebbe mantenuto un ruolo «determinante» nelle strategie di Mediobanca. Al punto che, solo qualche mese prima, i vertici della merchant erano intervenuti sulla governance per coprirsi le spalle: oltre al passaggio al sistema duale, il nuovo statuto prevedeva infatti che l’amministratore delegato fosse scelto tra chi era dirigente del gruppo da almeno tre anni.

Alla fine del 2019 l’uscita di Gae Aulenti avrebbe potuto rimuovere l’ultimo scomodo intreccio e normalizzare definitivamente la governance di Mediobanca. Tanto più che il ridimensionamento degli azionisti storici e la larghissima presenza di investitori istituzionali rendevano ormai l’istituto di piazzetta Cuccia qualcosa di molto simile a una public company. Ma l’ingresso di Leonardo Del Vecchio ha cambiato le carte in tavola. Dopo il blitz del settembre 2019 Mister Luxottica si è progressivamente portato al 13,2% con in tasca un autorizzazione della Bce per salire al 20%. Nuovi acquisti potrebbero essere annunciati molto presto visto che, per esempio, Vincent Bolloré sta smontando la partecipazione della Financiere du Perguet (che è appena scesa al 2,1%, perdendo così ogni influenza significativa) e la permanenza di altri soci storici nel capitale non è scontata. Già oggi comunque Delfin è al di sopra di quella dell’accordo di consultazione che raggruppa le partecipazioni di Mediolanum (3,3%), Benetton (2,1%), Fininvest (2%), Finpriv (1,6%) e altri. È Del Vecchio il nuovo padrone di Mediobanca e, a cascata, delle Generali di cui detiene il 4,8%? La materia è spinosa ed è da tempo sotto la lente di Consob e Antitrust. Occorre infatti ricordare che, a seguito del lungo assessment condotto dalla Bce lo scorso anno, Delfin è stata qualificata come investitore finanziario, un soggetto cioè che – pur prendendo parte alla vita societaria della partecipata – non è interessato a esercitare funzioni di controllo. Coerentemente con questa scelta all’assemblea di rinnovo del cda dell’ottobre scorso, Delfin ha appoggiato la lista di Assogestioni astenendosi da operazioni di disturbo nei confronti del vertice. A complicare ulteriormente la partita c’è stato l’ingresso in Mediobanca di Francesco Gaetano Caltagirone che di Generali è oggi vice presidente e secondo azionista con il 5,65%. Del Vecchio non ha perso tempo nel negare ogni collegamento, spegnendo così sul nascere ogni sospetto di concerto. Sarebbe però difficile non vedere una convergenza di interessi. Sia Mister Luxottica che Caltagirone vogliono dare una scossa alle Generali e, pur con toni diversi, lo hanno già fatto capire al mercato. Se il costruttore romano spinge per un assetto più plurale della governance, Del Vecchio ha un disegno strategico in mente: «riportare Generali al ruolo leader che aveva nel mercato assicurativo europeo alla fine degli anni 90 e che poi ha perso», come ha dichiarato qualche mese fa alle agenzie di stampa. Entrambi poi hanno una scadenza precisa nel mirino: il board in cui oggi siedono il presidente Gabriele Galateri e il ceo Philippe Donnet è entrato nell’ultimo anno di mandato e dovrà essere rinnovato nella primavera del 2021. Mentre la partita entrerà nel vivo c’è da scommettere che gli acquisti di azioni non si fermeranno. Se in piazzetta Cuccia Del Vecchio potrebbe salire al 20% e Caltagirone sembra propenso ad arrotondare il pacchetto comprato a febbraio, a Trieste la partecipazione congiunta dei due imprenditori è destinata a proiettarsi oltre il 10% e, sommata a quella di Mediobanca, potrebbe perfino superare la soglia d’opa (25%). Si andrà allo scontro? Non è detto. Soprattutto perché, se i soci privati presentassero una lista alternativa a quella del cda, sarebbe difficile eludere l’accusa di concerto. Gli stessi soggetti si troverebbero infatti a sostenere due formazioni, la prima in qualità di promotori diretti e la seconda da azionisti rappresentati nel board della compagnia. Problematiche scivolose che peraltro si erano già poste in occasione del precedente rinnovo e in merito alle quali Mediobanca aveva richiesto uno parere legale dello studio Marchetti focalizzato sulla disciplina dell’opa. Se l’esito della partita è incerto, la domanda più vecchia della finanza italiana è comunque tornata a circolare con insistenza tra investitori, authority e policy maker: chi controlla le Generali? (riproduzione riservata)

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