Mancata urbanizzazione, scatta il danno ambientale
Pagina a cura di Dario Ferrara

Rischia grosso il comune che autorizza i nuovi insediamenti abitativi del circondario a immettere acque luride nell’alveo dell’acqua piovana, trasformando il canale di scolo in una fogna a cielo aperto. E ciò perché il governo locale non ha realizzato le minime opere di urbanizzazione necessarie al comprensorio residenziale. Il pericolo per l’ente civico è essere condannato a risarcire il danno ambientale: sbaglia la Corte d’appello a escluderne la responsabilità laddove dalla motivazione non emerga come all’esito della consulenza tecnica d’ufficio sia arrivata alla conclusione che in capo all’amministrazione non sussista la qualità di custode dell’opera. È quanto emerge dall’ordinanza n. 1108/21, pubblicata il 21 gennaio dalla sesta sezione civile della Cassazione.
Potere effettivo. Accolto il ricorso proposto dai proprietari del fondo inquinato in un comune della Terra dei Fuochi. Trova ingresso la censura che denuncia la nullità della sentenza o del procedimento: la Suprema corte, come giudice del fatto processuale, ben può esaminare le consulenze tecniche d’ufficio allegate al ricorso oltre che la sentenza del giudice di prime cure. E ne deduce che la responsabilità del Comune era stata individuata anche perché è l’amministrazione locale ad autorizzare l’immissione delle acque nere nel canale di scolo, invece di pianificare e realizzare i servizi infrastrutturali in modo contestuale allo sviluppo urbanistico dell’area.

È proprio in base alla relazione tecnica che il Tribunale ritiene il comune custode dell’opera e obbligato alla corretta gestione, in quanto tenutario del canale di scolo: responsabile in base all’articolo 2051 c.c., infatti, risulta colui che ha un effettivo potere materiale sulla cosa, anche se non ne è proprietario ma soltanto possessore o detentore. Il che rende inconferente la difesa dell’ente locale secondo cui l’alveo sarebbe di proprietà demaniale.

Omessa motivazione. L’errore della Corte d’appello sta nel limitarsi a ricordare le regole della responsabilità da cose in custodia senza motivare le ragioni per le quali si discosta dalle conclusioni del primo giudice, negando in modo apodittico che i proprietari del terreno abbiano adempiuto l’onere probatorio costituito a loro carico.

Insomma: la sentenza di secondo grado non consente di comprendere perché l’ente civico non avrebbe il ruolo di custode.

Evidenza oggettiva. Inutile allora per il comune dedurre che il canale «incriminato» avrebbe natura di bene demaniale e che quindi la manutenzione dell’alveo spetterebbe alla Regione Campania. Il tutto invocando una sentenza del tribunale superiore delle acque pubbliche presso la Corte d’appello di Napoli.

In realtà, dalla consulenza tecnica d’ufficio emergono valutazioni di carattere giuridico sulla ricorrenza della responsabilità ambientale a carico dell’amministrazione locale.

Gli stralci della Ctu riportati dai proprietari del terreno avvelenato consentono di dimostrare la valutazione di fatti specifici apprezzati dalla Corte d’appello in modo difforme rispetto all’evidenza oggettiva.

La consulenza dà atto che il canale di scolo convoglia a cielo aperto acque non soltanto meteoriche ma anche provenienti da scarichi di tipo domestico. E che la situazione determina l’inquinamento ambientale della zona, in particolare del fondo dei ricorrenti.

Il comune non ha realizzato opere infrastrutturali idonee a evitare la contaminazione né una rete fognaria adeguata. Nemmeno pone in essere le attività di gestione e controllo del territorio necessarie a evitare l’immissione di acque nere. L’ente, quindi, è considerato responsabile del danno ambientale anche se la Ctu dà per scontata la relazione di custodia fra l’ente locale e l’alveo, pur non fornendo elementi utili a dimostrare la natura del bene.

Responsabile ex articolo 2051 c.c. è chi ha un effettivo potere di governo della cosa, che può essere sussunto nel concetto di custodia.

Omessa motivazione. In conclusione, la sentenza di secondo grado non rende intellegibile il percorso logico-giuridico che induce i giudici del gravame a ritenere che manchi la prova del ruolo di custode del canale di scolo in capo all’amministrazione locale. Il fatto che il Comune abbia consentito agli insediamenti abitativi di scaricare acque luride nell’alveo di quelle piovane non risulta preso in considerazione neppure nel senso dell’irrilevanza.

Nella motivazione la Corte d’appello non spiega in modo specifico perché ritiene di disattendere le conclusioni della sentenza di primo grado. Parola al giudice del rinvio.

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