di Sergio Sorgi (presidente eQwa)
In questi giorni il welfare, che fino a pochi giorni fa pareva relegato a voce di spesa da comprimere, viene rivalutato nel suo ruolo di promotore di benessere e di antidoto alle difficoltà. Dopo anni di messa in discussione del welfare pubblico, infatti, oggi c’è una concorde lettura sul beneficio del vivere in un paese nel quale tutti hanno il diritto di potersi curare, indipendentemente dallo stato lavorativo e dal reddito.
Il Sistema Sanitario Nazionale italiano è infatti universalista, diversamente dal sistema previdenziale pensionistico, nel quale ciascuno crea le proprie previdenze con i propri contributi, in assenza di «redistribuzioni».
La sanità italiana è un esempio per il mondo, ed ha origine da quel modello di supporto «dalla culla alla tomba» nato nel 1942 in Inghilterra per merito di William Beveridge e introdotto in Italia nel 1978 dal Ministro della Sanità di allora, Tina Anselmi. Certo, i tempi sono diversi, e quello che poteva funzionare inizialmente richiede revisioni e innovazioni di sistema; l’Italia di ieri non è quella di oggi, e in particolare c’è una stretta relazione tra demografia e welfare: in un Paese con famiglie «ristrette» (siamo a 1,3 figli per famiglia) e forte invecchiamento (l’età media degli italiani sfiora i 46 anni) crescono le fragilità da supportare con i sistemi assistenziali e previdenziali. Di conseguenza, il welfare pubblico sta ridefinendo le sue prestazioni e questo può essere parzialmente compensato dal welfare aziendale, nato nel secolo scorso grazie all’intuito di imprenditori lungimiranti e oggi nuovamente in forte sviluppo.
I motivi della seconda giovinezza del welfare aziendale sono molti: da un lato, infatti, quando il welfare pubblico arretra è naturale ampliare la rete del welfare ad altri soggetti, capaci di mettere in campo risorse differenti, sia sotto forma di denaro che di servizi integrativi e complementari dei sistemi di tutela statali. Dall’altro, viviamo una nuova transizione dalla globalizzazione estrema alla rinascita del «locale», che fa apprezzare il valore della relazione di prossimità tra impresa, territorio e lavoratori. Diventa, così, importante per un’impresa essere socialmente presente, anche perché le attenzioni ambientali e di sostenibilità costituiscono un criterio di preferenza degli utenti nella scelta di prodotti e servizi.
Naturalmente, si possono attivare politiche di welfare per motivi differenti. Un’impresa che ha un buon rapporto con i propri lavoratori ha minore turnover, minore assenteismo e presenzialismo (ore passate sul luogo di lavoro a doversi occupare di problemi personali e familiari seri), registra meno richieste di anticipi e prestiti presso le proprie direzioni risorse umane, ha lavoratori più motivati e meno in ansia. Inoltre, siamo in un periodo nel quale la solidarietà, la sostenibilità, il benessere sono temi chiave per interpretare il proprio ruolo sociale ben al di là del marketing decorativo. In questa dimensione, le imprese sanno che una reputazione sociale sostanziale e non formale è un fattore critico di successo, in termini di posizionamento e di sviluppo.
In questo scenario, e non è affatto residuale, lo Stato ha deciso di incentivare fiscalmente le attività di welfare aziendale; questo ha contribuito molto a sviluppare azioni e piani (di welfare), generando nuove attività e servizi collaterali, tra le quali le piattaforme di welfare, la nascita di una figura dedicata (welfare manager), servizi di consulenza per le imprese e, soprattutto, una buona diffusione di welfare aziendale.
Quando tutto si sviluppa molto velocemente, tuttavia, ci sono alcuni rischi. Il primo è quello di confusione, innanzitutto terminologica. Se tutto è welfare, forse nulla lo è e lasciare che l’etichetta di welfare aziendale comprenda sia semplici integrazioni al reddito che attività di supporto al benessere può essere fonte di fraintendimenti. Detto in altri termini, se un buono spesa rientra nella stessa categoria formale del sostegno ai familiari inabili, si può rischiare che alcune imprese preferiscano erogare denaro per attività semplici ed immediate piuttosto che realizzare progetti più articolati ma di migliore esito. Il rischio è minimo, ma non per questo inesistente. Come definire modelli di welfare efficaci, efficienti, coerenti con i bisogni attuali dell’impresa e dei lavoratori?
Per porre le prime basi per far bene le cose, a fine febbraio è iniziato il lavoro di redazione di una prassi di riferimento sul welfare aziendale e il ruolo del welfare manager. Le prassi di riferimento sono documenti UNI che introducono prescrizioni tecniche, ad adesione volontaria, elaborati una volta verificata l’assenza di norme o progetti di norma allo studio sullo stesso argomento. Le «prassi» supportano l’innovazione e la preparazione dei contesti di sviluppo per le future attività di normazione ed in specifico il lavoro appena avviato coinvolge vari esperti provenienti dal mondo delle imprese, della cooperazione, rappresentanti dei consumatori e dell’Università, e procederà da qui fino all’estate.
L’importanza del welfare aziendale per il benessere dei lavoratori richiede infatti un confronto sulle regole d’arte che sviluppino piani di welfare aziendale utili, e i temi da chiarire sono molti: innanzitutto, è bene individuare il soggetto «lavoratore», decidendo se includere le nuove forme di collaboratori che lavorano da casa o i consulenti. Bisogna, poi, decidere se sia più utile indirizzarsi solo ai lavoratori o comprendere anche i loro familiari. E ancora, per capire di cosa ha davvero ha bisogno un lavoratore, bisognerebbe descrivere la fase dell’analisi dei bisogni ed attivare servizi di orientamento efficaci. C’è, poi, il tema dell’oggetto, ossia del welfare: quando parliamo di benessere, infatti, è più garantista utilizzare definizioni e protocolli terzi e scientifici piuttosto che categorie scelte da noi in base alle sole nostre opinioni. In questo senso, ci sono attività che coprono più aree di benessere e una grande quantità di lavoratori, e probabilmente dovrebbero essere messe in priorità rispetto ad azioni specialistiche e di nicchia. Importante è il ruolo delle misurazioni, tema spesso sottovalutato e che invece consente di monitorare e correggere i piani meno efficaci. Vi è, infine, il ruolo della nuova figura del welfare manager, che non può essere autoattribuito ma che deve essere compiutamente descritto in termini di conoscenze, competenze, capacità organizzative e comunicative.
Il welfare aziendale compie i suoi secondi passi: data la sua importanza, è bene che ci sia una prima scrittura di regole, volontarie ma capaci di razionalizzare gli intenti ed i percorsi.
Nascono social e welfare manager
di Claudia Cassino
Prendersi cura dei lavoratori e delle loro famiglie, anche al di fuori dell’ambiente di lavoro, dovrebbe essere una priorità sempre e non soltanto nelle situazioni di emergenza. Per sostenere il capitale umano delle imprese possono così essere utili nuove professionalità: figure come il social manager e il welfare manager, che operano spesso in tandem e che incarnano competenze relativamente recenti per l’Italia. A lungo, infatti, il welfare aziendale è stato concepito come un benefit elargito volontariamente dalle aziende più «illuminate» ed è stato messo a sistema solo nel 2016 con la legge di Stabilità.
Ma che cosa fa il social manager? In primo luogo ascolta i bisogni e le necessità del dipendente, dopodiché lo assiste orientandolo tra le diverse opportunità disponibili: servizi provenienti dai sistemi di welfare pubblico, privato e aziendale, con l’obiettivo di ottimizzare le risorse e migliorare le condizioni di lavoro, cercando sempre di garantire la giusta conciliazione tra lavoro e vita privata. Il social manager, in concreto, non aiuta soltanto il personale a utilizzare al meglio gli strumenti già offerti dall’azienda, ma lo accompagna anche nei momenti importanti della vita: matrimoni o divorzi, malattie o lutti, pratiche burocratiche e amministrative (per esempio nel caso di personale extracomunitario), agendo come una sorta di facilitatore. «Per prima cosa, i social manager ascoltano e offrono soluzioni concrete che siano il più possibile risolutive per ogni singola risorsa e in linea con le guideline aziendali in questo ambito», spiega Paolo Gardenghi, responsabile Area Welfare di Up Day, la società bolognese che ha introdotto questa figura consulenziale per le proprie aziende clienti. «Il nostro obiettivo è infatti quello di contribuire a migliorare il benessere organizzativo e il clima aziendale delle imprese: la figura del social manager è da vedersi proprio in quest’ottica, naturalmente se integrata in modo armonico con le politiche di gestione del personale di ogni azienda».
Il social manager si dovrebbe rapportare, infatti, con il welfare manager che è invece la figura professionale che opera nel campo dell’organizzazione del lavoro progettando e gestendo piani di welfare aziendale e territoriale. Il welfare manager, inoltre, supporta le risorse umane in materia di welfare e smart working anche durante le varie fasi di contrattualizzazione, negoziazione e contrattazione sindacale. Tra gli altri compiti, come si legge nel piano di studi dei corsi di formazione promossi dalla Regione Lombardia, il welfare manager si occupa di definire le linee guida generali della politica di welfare aziendale, confrontandosi con il top management e con il dipartimento risorse umane, di definire il budget annuale delle singole iniziative, di svolgere un’analisi socio-demografica della popolazione aziendale determinandone aspettative, bisogni e percezioni con specifiche indagini. Stringe poi accordi di partnership e definisce i piani di comunicazione integrata per la promozione delle iniziative realizzate.
Nuove figure professionali, dunque, vanno a rafforzare la costruzione delle piattaforme di welfare aziendale: «una pratica che riflette una nuova cultura d’impresa che assume a tutti gli effetti il benessere dei lavoratori come risorsa fondamentale e sempre più strategica per la competitività e la produttività non solo delle aziende, ma anche dei territori e delle comunità locali in cui le aziende operano», come sintetizzano Roberto Cammarata e Alberto Martinelli nell’introduzione al volume Il welfare aziendale in Italia nel secondo dopoguerra, pubblicato da Egea. (riproduzione riservata)
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