di Carlo Valentini

«La crisi determinata dal Covid-19 conferma le preoccupazioni sulle conseguenze di Quota 100, che ha ridimensionato fortemente il Sistema sanitario nazionale, svuotandolo di quelle competenze che oggi servirebbero per fronteggiare al meglio l’emergenza, tanto che in taluni casi si arriva addirittura a cercare di richiamare in servizio coloro che se ne erano andati grazie appunto a quel provvedimento. Il 22% dei dipendenti pubblici che ha finora usufruito dei requisiti appartiene al settore della Sanità. Non solo. Quota 100 ha pure eliminato le competenze negli Uffici tecnici della pubblica amministrazione che ora sono impreparati a gestire i problemi amministrativi ed economici che l’emergenza sta sollevando»: Stefano Cianciotta è docente all’università di Teramo e fa parte del vertice (è pure presidente dell’Osservatorio sulle infrastrutture) di Confassociazioni (riunisce 362 associazioni professionali non organizzate negli ordini e 126 mila imprese).
A suo parere le falle registrate nella gestione dell’emergenza sanitaria sono state provocate anche dal mancato argine della pubblica amministrazione (compresa la sanità), depauperata di tecnici ed esperti senza dar tempo di procedere a un ricambio, soprattutto senza un piano di ridefinizione degli assetti di una burocrazia che necessitava di essere riplasmata (e non espulsa) secondo le nuove esigenze della società e dei mercati.
Dice Cianciotta: «Ogni dieci nuovi pensionati gli assunti sono solo tre e di questi solo il 15% viene impiegato nelle aree tecniche delle amministrazioni pubbliche. In queste condizioni come ci si può lamentare se, nell’emergenza, non si ricevono risposte dagli uffici pubblici, a cominciare da quelli sanitari? A novembre 2019 l’Inps aveva ricevuto complessivamente 201.022 richieste, 61.500 di queste sono state presentate da dipendenti pubblici. Quota 100 ha dirottato troppe risorse pubbliche su una platea assai limitata. Nel decennio 2019-2028 questa legge determinerà una maggiore spesa previdenziale pari a 41 miliardi in termini cumulati. Se aggiungiamo gli 11 miliardi annui spesi ad oggi per sostenere il bonus 80 euro e il Reddito di cittadinanza, il coronavirus ci pone di fronte alla realtà che non possiamo più permetterci di sostenere una politica di sussidi, ma dobbiamo invece sostenere quegli investimenti che alimentano una spirale economica positiva, come sono le infrastrutture e gli investimenti in edilizia. C’è uno studio dell’università Federico II di Napoli che certifica come nelle città toccate dall’Alta velocità ferroviaria il pil sia cresciuto in media del 7% in più rispetto al resto del Paese, nonostante la difficoltà economica dell’ultimo decennio.
Per questo rabbrividisco quando vedo una corsa agli aiuti e ai sussidi, con conseguente splafonamento del deficit pubblico, come risposta ai danni dell’epidemia. L’aiuto è necessario ma bisogna guardare oltre, se ci si ferma lì, alla ricerca di contributi pubblici e basta, siamo perduti».
Domanda. Quindi è più che mai auspicabile un grande piano di intervento pubblico sulle infrastrutture per rilanciare l’economia in stato confusionale…
Risposta. Sì, per questo vanno individuati i commissari straordinari, seguendo l’esempio della ricostruzione del ponte di Genova. Ovviamente essi debbono possedere le competenze di project manager e non la tessera di un partito. Anche il regolamento del Codice dei contratti, attualmente in discussione, va ancorato a questa esigenza di un rilancio in tempi brevi. Occorre andare nella direzione di semplificare il sistema. La copiosità delle leggi, l’aumento dei controlli e delle sanzioni hanno prodotto negli ultimi anni un risultato diametralmente opposto, con procedure più farraginose che per altro non hanno affatto debellato il fenomeno della corruzione.
D. Questa crisi sembra rivalutare il valore delle competenze.
R. Nell’ultimo decennio abbiamo assistito ad una sistematica delegittimazione delle competenze e della scienza. Posizioni senza alcun rilievo e fondamento scientifico, come il caso Stamina o anche i No Vax, sono stati spesso sostenuti e strumentalizzati da una parte del mondo politico, che ha lanciato strali contro il mondo della ricerca.
Il caso della virologa Ilaria Capua, costretta a lasciare l’Italia trasferendo in Florida l’equipe di ricerca che dirigeva a Padova, è sintomatico di una certa cultura del no e dell’odio, di cui ancora è imbevuta una parte della politica italiana. Questa situazione di crisi determinata dal coronavirus, invece, ristabilisce il primato della competenza, ed è il migliore spot per la qualità dei ricercatori italiani.
D. L’Italia avrà la forza per superare il cataclisma provocato dall’epidemia?
R. Con le idee chiare e se tutti remeranno nella stessa direzione il Paese può uscire addirittura migliorato da questo dramma. La paura è che sconfitto, o quasi, il virus, incomincino le diatribe politiche e tutto finisca in caciara, col sistema produttivo lasciato nelle sabbia mobili, magari con qualche aiutino a mo’ di mancia. Bisogna che la politica ma anche le associazioni di categoria e sociali premano perché si superino le divisioni e si proceda a una sorta di lodo istituzionale per un programma di investimenti nelle infrastrutture, si tratta del primo, più urgente obiettivo da realizzare per rimettere in moto la macchina produttiva. Per raggiungere questo traguardo bisogna rafforzare i ruoli tecnici e manageriali nelle pubbliche amministrazioni, che devono tornare ad avere nelle strutture tecniche allargate dei veri e propri centri di competenza capaci di fare programmazione e monitoraggio e controllo, tenendo conto che il Paese oltre che di viadotti e autostrade ha necessità anche di infrastrutture digitali.
L’apparato burocratico è stato spesso, giustamente criticato, ma va ammodernato non cancellato. La crisi del Covid 19 sta dimostrando cosa significa non avere una struttura burocratica pubblica efficiente e chi inneggiava a Quota 100 in funzione anti-burocrazia deve ricredersi, il provvedimento ha svuotato le aree tecniche della pubblica amministrazione, come ha di fatto svuotato il sistema sanitario. Ora gli Italiani si stanno rendendo conto che privarsi di competenze significa rendere più vulnerabile il Paese».
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