In un anno molto deludente per le performance come l’orribile 2018, le commissioni medie applicate da fondi comuni italiani si sono attestate all’1,6%. Ecco quali prodotti sono costati di più (e quali di meno) agli investitori
di Roberta Castellarin e Paola Valentini
Mentre i nuovi rendiconti Mifid II, che metteranno a confronto rendimenti e il dettaglio delle commissioni effettivamente pagate nel 2018, tardano ad arrivare ai risparmiatori, le società di gestione hanno dovuto aggiornare entro febbraio i documenti che fanno parte del kit informativo per la vendita dei fondi. E con la pubblicazione dei dati del 2018 è possibile avere un’anticipazione dei costi applicati ai clienti lo scorso anno, con un paragone con le performance ottenute. Proprio per capire quanto i sottoscrittori di prodotti che si definiscono attivi hanno pagato lo scorso anno, MF-Milano Finanza ha messo sotto la lente le commissioni o fee di oltre 1.200 fondi comuni di diritto italiano (raccolti dalla società di analisi finanziaria Fida), leggendoli alla luce dei rendimenti ottenuti nell’anno (il focus ha considerato i prodotti italiani perché per gli esteri la copertura dei dati non è completa).
In media nel 2018 le spese correnti prelevate dal patrimonio dei prodotti di diritto italiano sono state dell’1,6%, a fronte di una performance media (non ponderata per il patrimonio) 2018 del -6%. D’altronde lo scorso anno è stato davvero difficile per i mercati finanziari, con la maggioranza delle asset class che si è deprezzata. A chiudere in rosso, quindi, non sono stati solo i prodotti azionari, ma anche molti obbligazionari, bilanciati i flessibili. Come emerge anche dalle performance riportate in queste pagine. Da inizio anno il contesto è radicalmente cambiato e molti attivi stanno vivendo un vero e proprio rimbalzo. Come dimostra la performance da inizio anno degli indici Fideuram delle principali categorie con gli azionari che mettono a segno un +11,3%, i bilanciati un +5,1%, i bilanciati obbligazionari un +4,3% e i fondi flessibili un +3,2%. Ma i prospetti fotografano la situazione al 31 dicembre per cui gli investitori devono confrontarsi con costi ancora elevati e performance che sono state negative lo scorso anno.
Cosa c’è nel conto. Le spese correnti, introdotte dalla normativa comunitaria europea Ucits IV, hanno sostituito nel 2011 il precedente indicatore riepilogativo dei costi del fondo: il Ter (Total expense ratio). Sono indicate nel Kiid (il documento voluto dalla normativa comunitaria) che sintetizza i costi sostenuti ogni anno dal fondo e, quindi, dai sottoscrittori (dal 2020 sarà sostituito dal più dettagliato Kid, già in vigore per le polizze). Le spese correnti sono calcolate come rapporto, espresso in percentuale, tra il totale delle spese correnti e la media del patrimonio netto. E comprendono i costi per il possesso di un fondo, quali le commissioni di gestione, di pubblicazione del valore della quota, di revisione, il compenso della banca depositaria e le spese legali.
Non includono, invece, quelle di performance e sono escluse anche le commissioni di intermediazione legate alla compravendita dei titoli in portafoglio, le commissioni di ingresso e uscita dai comparti (questi ultimi sono a carico dei singoli investitori e sono a discrezione del collocatore) e gli oneri fiscali. Ma proprio perché non includono le commissioni di incentivo (a differenza del vecchio Ter che invece le comprendeva), queste sono state indicate a parte. Sono peraltro prerogativa dei gestori attivi perché remunerano la maggiore performance ottenuta rispetto al parametro di riferimento scelto, il benchmark. I dati Fida comprendono tutti i fondi per i quali è disponibile il dato del 2018, mancano all’appello Soprarno sgr, Investitori sgr e Interfund. Detto questo, cosa emerge?
I più e meno cari. Sono state individuate sette macrocategorie e all’interno di ciascuna di queste sono stati individuati i 15 fondi più cari e i 15 meno cari del 2018. Tra gli azionari i più costosi appaiono i fondi della famiglia Consultinvest, guidata da Maurizio Vitolo. In particolare le due classi Consultinvest Global A e C hanno prelevato spese correnti rispettivamente per il 3,94% e il 3,93% a fronte di un risultato negativo pari a oltre il -15%. Tra i più cari ci sono anche Agora Materials (3,31%) e Zenit Megatrend R (3,15%), anch’essi entrambi in rosso (-14%). Sopra il 3% anche Fideuram Master Sel Equity, Global Emerging Market (3,13%), Fideuram Master Select Equity New World (3,09%) e Allianz Multipartner Multi90 (3,06%), tutti in perdita.
All’opposto tra i fondi equity meno cari, ma comunque sempre con il segno meno davanti ai rendimenti, si trovano AComeA Italia P2 (0,91%), Sella Investimenti Azionari Italia (0,92%) e Euromobiliare Azioni Italiane (0,93%). In particolare dalle classifiche pubblicate in questo servizio sui prodotti più e meno costosi, emerge che AcomeA ricorra spesso tra i più economici. Del resto un motivo c’è. La sgr fondata e presieduta da Alberto Foà ha scelto di lanciare classi di fondi dedicate all’investitore fai-da-te, che compra i fondi in autonomia tramite i canali online oppure direttamente in Borsa Italiana come avviene per le azioni, due formule che permettono di evitare le commissioni di collocamento che i distributori (banche o reti) percepiscono nella vendita dei prodotti finanziari per la consulenza prestata.
Commissioni che sono prese da quelle di gestione. Che non a caso per AcomeA sono molto basse per le classi dedicate all’investitore che compra direttamente i fondi. In dettaglio, accanto alla scelta tradizionale (classi A1 e P1, questa dedicata ai Pir), la sgr mette a disposizione dell’investitore tre classi di fondi senza i costi associati alla consulenza: la A2 e la P2 (sempre Pir), entrambe acquistabili online, e classe Q2, quotata in Borsa Italiana. Ma per ora poche società di gestione italiane hanno quotato i propri comparti a gestione attiva nel mercato di Piazza Affari dedicato ai fondi.
Intanto sempre AcomeA/Gimme5 con Fundsquare e Fabrick hanno completato il primo test per la distribuzione di fondi comuni tramite Blockchain. Giordano Martinelli, vicepresidente di AcomeA sgr, sottolinea: «Siamo orgogliosi di essere tra i pionieri in Italia nell’utilizzo della blockchain per il settore del risparmio gestito. Il progetto si inserisce nella serie di attività che da sempre AcomeA svolge per semplificare e rendere maggiormente accessibile il mondo del risparmio gestito».
Tornando all’analisi dei dati, tra i bilanciati il più economico in assoluto è Sella Investimenti Strategici C (0,61%), segue Anima Sforzesco Plus S (0,71%) e Zenit Obbligazionario I (0,83%). A presentare il conto più salato sono stati invece altri due prodotti di Consultinvest (Dinamico C e A con, rispettivamente, il 3,95% e il 3,94%) e il Fonditalia Core 3 R (3,18%). Gli obbligazionari vedono tra i comparti più convenienti: Sella Opportunità Breve Termine C (0,17%), Amundi Obbligazionario Breve Termine E (0,2%) e Anima Riserva Dollaro F (0,25%). E i più onerosi sono l’Euromobiliare Emerging Markets Bond A (2,26%), Fonditalia Emerging Markets Local Currency Bond RH e Fonditalia Emerging Markets Local Currency Bond R (entrambi al 2,07%). Bisogna, però, precisare che nella macrocategoria degli obbligazionari possono rientrare comparti molto diversi tra loro, che spaziano dai governativi a breve termine agli specializzati nei Paesi emergenti. In questo caso quindi nel valutare l’onerosità del fondo bisogna anche tener conto della sottocategoria a cui appartiene.
Tra gli obbligazionari flessibili, una specializzazione di gran moda negli ultimi anni, sono sei i prodotti con spese correnti superiori al 2%. Tra questi Fonditalia Allocation Risk Optimization, nelle classi R ed S, è al 2,14%. Mentre Consultinvest Alto rendimento, nelle sue quattro tipologie di quota, segna costi correnti del 2%. Segue Anima Rendimento Assoluto obbligazionario H con l’1,9%. Al contrario tra i meno cari ci sono Arca Impresa Rendita (0,33%), Amundi Primo investimento E (0,41%) ed Eurizon Riserva 2 anni C (0,47%).
Intanto emerge la pressione degli Etf che hanno continuato a ridurre i costi. Ma questa spinta che finora ha interessato le gestioni passive, inizia a coinvolgere anche i fondi attivi. Su quest’ultimo fronte in Italia c’è il tema delle fee di performance delle sgr basate all’estero che dovranno essere limitate su richiesta dell’Ue. La tendenza al taglio dei costi è sostenuta anche da performance poco brillanti della gestione attiva. Che a detta di molti osservatori del mercato è destinata a tornare in auge dopo una fase di dominio degli investimenti agganciati all’indice. E qualche segnale di riduzione dei costi si vede già. Lo scorso anno ad esempio Banca Mediolanum ha ridotto le commissioni d’ingresso sui due fondi legati ai piani di risparmio (Sviluppo Italia e Futuro Italia). Dal 15 febbraio dello scorso anno sono al massimo del 3%, rispetto al limite precedente rispettivamente del 4 e del 6%. Inoltre dal primo gennaio 2018 le commissioni di gestione di Sviluppo Italia erano state abbassate dal 2 all’1,5% e quelle di Futuro Italia all’1,75% dal precedente importo del 2,25%.
Nelle scorse settimane Azimut ha annunciato una rimodulazione delle commissioni per i fondi lussemburghesi. Assieme a un incremento di circa 50 punti base (lo 0,5%) delle commissioni di gestione, il gruppo ha comunicato di aver sottoposto all’autorità di vigilanza del Granducato una nuova metodologia di calcolo delle commissioni di performance sui fondi lussemburghesi, che sfocerà in una riduzione dei costi variabili per i clienti, in linea con quanto indicato dai principi Iosco (International Organization of Securities Commission, un’associazione cui aderiscono le autorità di un centinaio di Paesi, costituita nel 1983 per promuovere standard rigorosi di funzionamento dei mercati).
Senza dubbio l’innesco di questi tagli è anche da ricercare nella normativa Mifid II, che ha debuttato a inizio 2018. Quest’ultima impone a partire da quest’anno a tutte le reti di esporre nel rendiconto periodico al cliente tutti i costi dei prodotti, inclusi quelli di custodia e perfino di trading. E quasi tutte le reti hanno scelto di divulgarli il più tardi possibile, perché il 2018 è stato un anno molto particolare nella storia dei mercati finanziaria con il 90% degli asset che hanno avuto un rendimento negativo. E quindi gli intermediari cercano di prendere tempo e hanno recentemente scritto alla Consob per capire come interpretare le nuove regole di trasparenza.
Ma la commissione il 28 febbraio ha risposto spiegando alle sgr di non perdere tempo nell’inviare i nuovi rendiconti ai clienti ricordando, come specificato anche dall’Esma, che vanno mandati il «prima possibile a decorrere dalla maturazione del periodo di riferimento», ovvero subito dopo la fine dell’anno. «La nuova disciplina Mifid II richiede agli intermediari maggiore trasparenza informativa su costi e oneri connessi alla prestazione di servizi di investimento e accessori e agli strumenti finanziari. Ciò al fine di assicurare che gli investitori siano consapevoli di tutti i costi e gli oneri per la valutazione degli investimenti anche in un’ottica di confronto fra servizi e strumenti finanziari», ha sottolineato ancora la Consob nella sua lettera di richiamo agli operatori. (riproduzione riservata)
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