Nel 2017 le commissioni medie dei prodotti italiani sono state dell’1,5%. Ma c’è anche chi ha superato il 5%. La spinta della Mifid II e il boom degli Etf mettono sotto pressione il comparto, ma non abbastanza. Ecco chi costa di più e chi vi chiede meno
di Roberta Castellarin e Paola Valentini
L’avanzata di prodotti low cost, come gli Etf, e la pressione sulla trasparenza dei costi introdotta dalla Mifid II accendono i riflettori sulle commissioni richieste dai gestori dei fondi attivi. Che in Italia, come ha rilevato di recente la Consob, restano alte per via di una struttura distributiva basata sulle retrocessioni delle fee al collocatore, cosa che fa lievitare il costo finale per chi investe in fondi. Con la pubblicazione dei rendiconti del 2017 è possibile avere un’idea dei costi applicati ai clienti nel corso dell’anno. E fare un confronto con i rendimenti ottenuti. Proprio per capire quanto i sottoscrittori di prodotti che si definiscono attivi hanno pagato lo scorso anno, MF-Milano Finanza ha analizzato i dati sui costi raccolti dalla società di analisi finanziaria Fida dai documenti informativi di 1.200 fondi comuni di diritto italiano, mettendoli a confronto con i rendimenti ottenuti nell’anno (il focus ha considerato i prodotti italiani perché per gli esteri la copertura dei dati non è completa). In media nel 2017 le spese correnti prelevate dal patrimonio dei prodotti di diritto italiano sono state dell’1,5%, a fronte di una performance media 2017 del 3,4%. Le voci di spesa comprendono i costi per il possesso di un fondo, quali le commissioni di gestione, di amministrazione e revisione e della banca depositaria. Non includono, invece, quelle di performance e sono escluse anche le commissioni di intermediazione legate alla compravendita dei titoli in portafoglio, le commissioni di ingresso e uscita dai comparti (questi ultimi sono a carico dei singoli investitori e sono a discrezione del collocatore), oltre che gli oneri fiscali. Le spese correnti sono indicate nel Kiid (il documento introdotto dalla normativa comunitaria) che sintetizza le spese sostenute ogni anno dal fondo e, quindi, dai sottoscrittori (dal 2020 sarà sostituito dal più dettagliato Kid). Ma proprio perché non includono le commissioni di incentivo, sono state indicate a parte. Queste ultime sono prerogativa dei gestori attivi perché remunerano la maggiore performance ottenuta rispetto al parametro di riferimento scelto, il benchmark. Sulla base dei dati Fida è stata anche calcolata la media delle spese correnti di tutti i fondi di ciascuna società. Con un’avvertenza: i costi dipendono dalla categoria (gli azionari o i flessibili di solito sono più cari), quindi le sgr possono avere una media totale più elevata anche per via di una maggiore esposizione all’equity. Inoltre i dati Fida comprendono tutti i fondi per i quali è disponibile il dato del 2017. Ecco perché manca, per esempio, AcomeA, che è stata la prima sgr italiana a quotare propri fondi in borsa (nell’apposito segmento di Piazza Affari), una nuova modalità di collocamento (insieme alla vendita online) che ha permesso alla sgr di scontare le commissioni di gestione annuali di oltre il 50% rispetto alla tradizionale distribuzione tramite banche o reti di consulenti perché non bisogna remunerare questi ultimi. Detto questo, cosa emerge? La sgr dalle spese correnti medie più alte è Consultinvest Sgr (2,67%) a fronte di un rendimento medio 2017 del 4,77%, seguita da Agora Sgr (2,08% e rendimento medio dello 0,11%) e Azimut (2,04%, rendimento medio del 3,87%).
In fondo alla classifica spiccano Mediobanca Sgr (1,08% con rendimento medio del 2,09%), Investitori Sgr (1,02% e rendimento medio dell’8,52%) e Bancoposta Fondi Sgr (0,94% e rendimento medio dell’1,74%).
Sul fronte dei singoli fondi, sono state individuate sette macrocategorie. Tra gli azionari il più caro è Consultinvest Global C con spese correnti del 3,803% e un rendimento 2017 del 7,53%. Proprio di Consultinvest è anche il fondo più caro in assoluto: il Consultinvest Mercati Emergenti, inserito tra i flessibili, con costi del 5,074% e un rendimento 2017 del 7,76%. Mentre tra gli obbligazionari flessibili, una specializzazione di gran moda negli ultimi anni, il più economico è Arca Impresa Rendita con un costo dello 0,32%, tuttavia il fondo ha reso -0,08% nel 2017. Il conto più salato di questa asset class è Euromobiliare Crescita Attiva A con spese del 2,05% e un risultato poco sotto la parità (-0,18%).
Intanto gli Etf hanno continuato a ridurre i costi. In base alle analisi di Oliver Wyman sul mercato globale dei fondi indice, nel 2017 le loro commissioni sono scese del 9%, di pari passo al boom della raccolta (+8%), mentre i costi dei fondi attivi sono rimasti invariati a fronte di una raccolta cresciuta del 5% (si veda grafico). Ma ora la spinta a ridurre i costi, che finora ha interessato le gestioni passive (oltre che l’altro estremo del mercato, gli hedge fund, adatti però ai grandi patrimoni), inizia a coinvolgere anche i fondi attivi. Su quest’ultimo fronte in Italia c’è il tema delle fee di performance delle sgr basate all’estero che dovranno essere limitate su richiesta dell’Ue. La tendenza al taglio dei costi è spinta anche da performance poco brillanti della gestione attiva. Che a detta di molti osservatori del mercato è destinata a tornare in auge dopo una fase di dominio degli investimenti agganciati all’indice. E qualche segnale di riduzione dei costi si vede già. Banca Mediolanum ha ridotto le commissioni d’ingresso sui due fondi legati ai piani di risparmio (Sviluppo Italia e Futuro Italia). Dal 15 febbraio sono al massimo del 3%, rispetto al limite attuale rispettivamente del 4 e del 6%. Mentre dal primo gennaio le commissioni di gestione di Sviluppo Italia erano state abbassate dal 2 all’1,5% e quelle di Futuro Italia all’1,75% dal precedente importo del 2,25%. Tagli che sono stati effettuati anche per via dell’impatto della normativa Mifid II, in vigore da inizio anno.
Quest’ultima impone a tutte le reti di esporre nel rendiconto al cliente tutti i costi dei prodotti, inclusi quelli di custodia e perfino di trading. «Quasi tutte le reti hanno scelto di divulgarli il più tardi possibile, quindi a inizio 2019. Banca Mediolanum ha invece deciso di spingere i promotori a incontrare subito i clienti con lo scopo di dare evidenza dei costi e spiegarne la ratio», affermano gli analisti di Equita sim.
Dall’altro lato la sim osserva anche che Banca Mediolanum si è mossa per ridurre i costi a carico del cliente (262 punti base nel 2017), cercando di minimizzare l’impatto sul proprio bilancio. «Stimiamo che per il cliente il costo dei fondi diminuirà di circa 40 punti base, con un effetto per Banca Mediolanum di dieci punti base». Anche Anima di recente ha rivisto le commissioni, in particolare quelle pagate dai sottoscrittori quando passano da un fondo all’altro della casa. Un’altra strada per risparmiare è comprare i fondi direttamente in borsa, e il citato caso di AcomeA lo dimostra. Ma per ora poche società di gestione italiane hanno quotato i propri comparti a gestione attiva nel mercato di Piazza Affari dedicato ai fondi.
A conferma di queste tendenze c’è un corposo studio di Morgan Stanley e Oliver Wyman sul settore bancario intitolato «Winning under pressure», dal quale emergono tutti i nodi che dovranno affrontare i grandi gruppi finanziari per mantenere la redditività e le strategie che stanno seguendo. L’idea è che gli asset manager non hanno approfittato degli ultimi anni di un vero Eldorado in termini di raccolta e di mercati favorevoli per mettere fieno in cascina per tempi più magri. E ora che questi stanno arrivando, anche come conseguenza di una regolamentazione che ha portato maggiore trasparenza dal punto di vista delle commissioni, devono correre ai ripari.
Lo studio sottolinea che «la crescita dei ricavi è stata nel 2017 solo dell’1% più veloce rispetto a quella dei costi, nonostante un anno stellare per la crescita della raccolta gestita. Non ci aspettiamo che la pressione sulle commissioni si riduca e ciò, insieme a ricavi di mercato più bassi, impone di affrontare il tema dei costi. Nel peggiore degli scenari potrebbe essere necessaria una ristrutturazione ancora più radicale». Dall’inchiesta condotta tra i dirigenti dei gestori di fondi che superano 11 mila miliardi di dollari di asset complessivi in gestione, è emerso che «la necessità di ristrutturare è ampiamente riconosciuta, ma alcune società non ne avvertono l’urgenza. L’idea è che se stanno dando eccellenti ritorni vuol dire che guadagnano bene anche se il loro back o mid office è inefficiente, quindi non si focalizzano sul problema». Eppure la maggioranza delle società intervistate riconosce che la pressione sulle commissioni rappresenta un rischio. Molti sottolineano che la maggiore trasparenza introdotta dalla Mifid II rende difficile sperare che il pricing non dovrà scendere. In questo senso nuovi modelli commissionali sono stati sperimentati, ma finora nessuno è per ora vincente.

Oltre alla trasparenza ci sono poi i possibili cambiamenti radicali nella distribuzione. «Pur essendo incerti gli esiti, e prevedendo un’alta variabilità tra varie aree, crediamo che l’emergere di un marketplace stile Amazon sia una possibilità concreta. Ciò comporterebbe una spinta verso un pricing della gestione attiva sul modello di Vanguard, quindi a un calo stimabile in almeno il 50% per gli introiti del settore», avverte lo studio.
Se si parla di miglioramenti di efficienza, entra in gioco la tecnologia. «Stimiamo che l’automazione e l’outsourcing possano tradursi in risparmi fino al 30% per il settore, con un panorama di venditori più maturo e potenziali soluzioni greenfield che potrebbero portare a una maggiore attività».
Per quanto riguarda la ricerca di rendimenti aggiuntivi, quello che nel settore viene definito generare alfa, «gli operatori dalle migliori performance continuano ad attirare nuovi flussi e riescono a resistere alle pressioni sulle commissioni, obbligando gli asset manager a cercare tecniche per aumentare la generazione di alfa. Lo sfruttamento dell’intelligenza artificiale o l’acquisto di banche dati proprietarie potrebbe essere un’iniziativa efficace, ma la proliferazione di dati e algoritmi sta mettendo costantemente a rischio questa opportunità», dice lo studio. Che aggiunge: «Se investire in quest’area favorirà naturalmente chi ha più possibilità di spendere, crediamo che il successo in questo campo non sarà legato solo a questo, ma in definitiva richiederà il possesso di altre competenze».
Per quanto riguarda le economie di scala «la nostra ricerca mostra come i gestori più grandi risentano di minori deflussi di risorse nei prodotti a gestione attiva, grazie allo sfruttamento dei risparmi nella distribuzione. Notiamo anche come le società più grandi siano più efficaci nel modificare o diversificare il modello di business. Tuttavia, la tecnologia potrà indebolire il vantaggio delle economie di scala, aprendo nuove opportunità a modelli di business alternativi», dice lo studio. Infine per quanto riguarda l’evoluzione della forza lavoro, secondo il report: «L’evoluzione tecnologica avrà diverse importanti implicazioni, ma nel lungo termine cambierà soprattutto la composizione della forza lavoro del risparmio gestito. L’automazione e l’esternalizzazione delle competenze, in particolare, dovrebbero tradursi in riduzioni del personale, ma richiederanno anche una riqualificazione fino al 40% della forza lavoro, oltre a una forte leadership gerarchica da parte dei ceo». Lo studio si conclude riflettendo sul fatto che la sfida per il settore dell’asset management sarà reinvestire nel business, mentre si riduce il costo della manifattura. Un’operazione funambolica che vede per ora favoriti i colossi americani dell’asset management, che possono contare sul vento a favore della riforma fiscale. In base alle stime di Morgan Stanley il taglio delle imposte porterà in media a un incremento degli utili del 15-20% per i gruppi Usa. Secondo gli esperti il management di queste società dovrà investire buona parte di questo regalo dato dalla riforma fiscale per prepararsi alle sfide del futuro. Tanto più che, nonostante i tassi d’interesse abbiano ricominciato ad alzarsi rispetto al livello sotto zero raggiunto dopo la crisi finanziaria, la fame di redditività da parte degli investitori è ancora presente, soprattutto a livello globale dove i tassi restano depressi. Inoltre l’invecchiamento dei baby boomers insieme alle nuove esigenze dei millennials rappresentano opportunità da cogliere tramite l’innovazione.
Lo studio aggiunge: «Nell’era dell’asset allocation gratis e dei prodotti indicizzati sempre più economici, abbassare i costi di produzione è fondamentale per migliorare la competitività degli asset manager. Tuttavia sarà anche importante orientare il business verso le aree dove è più rapida la crescita». In particolare lo studio cita gli investimenti socialmente responsabili, i cosiddetti Esg (Environment, social e governance) investing, i prodotti specializzati anche nei settori meno liquidi e nel private equity, la possibilità di migliorare la performance sfruttando i big data e l’intelligenza artificiale e, infine, le soluzioni multi asset per distinguersi dalla concorrenza. Mentre sull’investimento in tecnologia la ricerca rivela: «Stimiamo che i principali player stiano spendendo nell’innovazione fino a 3 volte più dei loro rivali più piccoli. Ma non conta solo l’investimento. La concentrazione e la disciplina nell’esecuzione sono fondamentali per far sviluppare le iniziative. Con una spesa tecnologica complessiva che oggi corrisponde al 15-20% delle entrate, sarà cruciale gestire la transizione verso un’architettura modulare e un modello agile di erogazione dei servizi». Ma cambieranno anche le star di questo mondo. Comanderà chi sa sfruttare al meglio proprio dati e tecnologia: «Mentre le banche ripensano il loro business incentrandolo su tecnologia e dati, dovranno definire anche un nuovo modo di gestire i talenti, con uno spostamento di circa il 30% dai ruoli tradizionali a quelli specializzati nella tecnologia e nell’analisi quantitativa. Riteniamo che sarà necessario pensare a una nuova value proposition per i dipendenti, in un mondo di crescente competizione per acquisire i migliori talenti», dice lo studio. La ricerca fa anche il punto su come i colossi si stiano posizionando per vincere la sfida. Per esempio Ubs pianifica di spendere il 10% dei suoi ricavi in tecnologia. E tra i progetti più interessanti che sta sviluppando, uno riguarda l’analisi del big data per aumentare la performance; un altro prevede l’utilizzo di macchine autoapprendenti per sviluppare nuove strategie di trading della volatilità da proporre ai clienti. Dal canto suo Credit Suisse sta puntando sul digital private banking, che porti anche a un social network mirato che consenta lo scambio di idee e contatti. (riproduzione riservata)
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