Per i Millennials la pensione pubblica non solo sarà lontana, ma sarà anche magra. È quanto emerge dal focus Censis Confcooperative, secondo cui esiste un esercito di 5,7 milioni di lavoratori con una storia di lavori precari che, rischiano di alimentare il numero dei poveri in Italia entro il 2050
di Roberta Castellarin
Per i Millennials la pensione non solo sarà lontana, ma sarà anche magra. È quanto emerge dal focus Censis Confcooperative “Millennials, lavoro povero e pensioni: quale futuro?”. Dalla ricerca emerge che esiste un esercito di 5,7 milioni di lavoratori con una storia di lavori precari che, se questa tendenza non dovesse essere invertita, rischiano di alimentare le fila dei poveri in Italia entro il 2050. Il ritardo nell’ingresso nel mondo del lavoro, la discontinuità contributiva, la debole dinamica retributiva che caratterizza molte attività lavorative rappresentano un pericoloso mix di fattori che proietta uno scenario preoccupante sul futuro previdenziale e la tenuta sociale del Paese, dove le condizioni di nuove povertà, determinate da pensioni basse, saranno aggravate dall’impossibilità, per molti lavoratori, di contare sulla previdenza complementare come secondo pilastro pensionistico.
Aumenta una disuguaglianza tra generazioni. Infatti il confronto fra la pensione di un padre e quella prevedibile del proprio figlio segnala una decisa divaricazione del 14,6%. Il sistema previdenziale obbligatorio attuale garantisce a un ex dipendente con carriera continuativa, 38 anni di contributi versati e uscita dal lavoro nel 2010 a 65 anni, una pensione pari all’84,3% dell’ultima retribuzione. A un giovane che ha iniziato a lavorare nel 2012 a 29 anni, per il quale si prefigura una carriera continuativa come dipendente, 38 anni di contribuzione e uscita dal lavoro nel 2050 a 67 anni, il rapporto fra pensione futura e ultima retribuzione si dovrebbe fermare al 69,7%, quasi quindici punti percentuali in meno.
Questo nella migliore delle ipotesi. Rischia di andare molto peggio a 5,7 milioni di persone. Infatti sono oltre 3 milioni i Neet (18-35 anni) che hanno rinunciato a ogni tipo di prospettiva a causa della mancanza di lavoro. A questi si aggiungono 2,7 milioni di lavoratori, tra working poor e occupati impegnati in “lavori gabbia” confinati in attività non qualificate dalle quali, una volta entrati, è difficile uscirne e che obbligano a una bassa intensità lavorativa pregiudicando le loro aspettative di reddito e di crescita professionale. A tutto ciò si aggiunge un problema di adeguatezza del “rendimento economico” del lavoro che espone al rischio della povertà.
Lavorare, quindi, può non bastare. Per i giovani, in particolare, lo slittamento verso il basso delle remunerazioni, in assenza in Italia di minimi salariali, segnala in maniera ancora più marcata la separazione che sta avvenendo fra i destini dei lavoratori e la sostenibilità a lungo termine dei sistemi di welfare. Questo effetto di “sfrangiamento” del lavoro rispetto al passato è poi messo in evidenza dalle tipologie di lavoro a “bassa qualità” e a “bassa intensità” che si stanno via via diffondendo. Sono, infatti, 171.000 i giovani sottoccupati, 656.000 quelli con contratto part-time involontario e 415.000 impegnati in attività non qualificate. La scelta obbligata di lavorare meno ore rispetto alla propria volontà evidenzia una situazione di inadeguatezza del lavoro svolto come fonte di reddito, tanto da diventare causa di marginalità rispetto alla potenziale disponibilità del lavoratore Il dettaglio regionale fa emergere la forte differenza socio economica tra Nord e Sud.
Anche solo guardando al fenomeno dei Neet, nella fascia 25-34 anni (totale 2 milioni), i giovani che non lavorano e non studiano che vivono nelle sei regioni del Sud sono oltre la metà, ben 1,1 milioni, di cui 700mila circa concentrati in sole due regioni: Sicilia (317mila) e Campania (361mila).
“Queste condizioni hanno attivato una bomba sociale che va disinnescata”, dice Maurizio Gardini, presidente di Confcooperative, “lavoro e povertà sono due emergenze sulle quali chiediamo al futuro governo di impegnarsi con determinazione per un patto intergenerazionale che garantisca ai figli le stesse opportunità dei padri. Non sono temi di questa o di quella parte politica, ma riguardano il bene comune del Paese. Sul fronte della povertà il reddito di inclusionr, con un primo stanziamento di 2,1 miliardi che arriverà a 2,7 miliardi nel 2020, fornirà delle prime risposte, ma dobbiamo recuperare 3 milioni di persone non impegnate nello studio, né nel lavoro né nella formazione e offrire condizioni di lavoro dignitoso ai 2,7 milioni di lavoratori poveri. Rischiamo di perdere un’intera generazione”.
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