Un operaio con uno stipendio mensile netto di circa 1.350 euro costa in realtà all’azienda 2.357 euro; un impiegato che ne guadagna 1.700, costa oltre 3.200 euro (Fonte: Simulazioni e analisi – Cgia di Mestre); alla retribuzione mensile lorda, si sommano infatti tutta una serie di contributi mensili versati dal datore di lavoro che costituiscono un tema ben noto sia ai lavoratori che alle imprese; il cuneo fiscale incide, in questo caso, rispettivamente per il 41,5 e il 46,8%. Una percentuale elevatissima, che toglie potere d’acquisto al dipendente e all’azienda e che ha stimolato la riflessione su come abbinare alla retribuzione intesa come «potere d’acquisto in denaro», un «potere d’acquisto in benessere» esente da cunei fiscali o, addirittura, agevolato.
Il riferimento normativo è il Testo Unico delle Imposte sui Redditi, che nell’articolo 51 enell’articolo 100, definisce gli importi chenon concorrono alla formazione di redditoper il dipendente,e sonodeducibili dall’azienda. Lo sviluppo del welfare aziendale può contare su una normativa sempre più dettagliata che punta ad incentivare l’adesione.
Il primo passo è avvenuto con la Legge di stabilità del 2016, che ha introdotto ragionamenti importanti con la modifica dell’articolo 51 e un ripensamento della gestione dei premi di produttività. L’articolo 51 è stato modificato su due fronti: da un lato sono state incluse nuove tipologie di servizi, dall’altro è stato introdotto un nuovo modo di concepire il welfare aziendale, che si apre a confronti e accordi sindacali, territoriali o aziendali, divenendo parte costitutiva del rapporto con i lavoratori.
Un’altra modifica rilevante ha riguardato la fiscalità; si è infatti scelto di offrire al lavoratore la possibilità di scegliere se ricevere dall’azienda «premi di risultato» con un’imposta agevolata Irpef del 10%, o di convertire il premio in beni e servizi che, entro certi limiti, non contribuiscono a determinare il reddito e sono dunque detassati.
La legge di Bilancio 2017 ha raccolto l’eredità di quanto avviato, consolidandone i principi. La gamma di servizi offerti è stata estesa, includendo azioni rivolte all’infanzia e ai familiari anziani non autosufficienti e rafforzando le misure a favore della conciliazione vita-lavoro. Rispetto al 2016, le politiche fiscali sono state ad esempio ulteriormente ampliate con l’innalzamento del tetto massimo di reddito percepito che dà diritto ad una tassazione agevolata (passando da 50.000 a 80.000) e con l’aumento dell’importo di servizi erogabili (da 2000 a 3000 nella generalità dei casi). La coerenza di obiettivi è stata di recente ulteriormente rafforzata con la Legge di Bilancio 2018, che procede il cammino intrapreso, ampliando il raggio di azione di benefici e agevolazioni, per lavoratori ed aziende.
Le misure normative di questi anni sono indubbiamente un buon incentivo. Ne sono prova i dati diffusi dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali secondo cui, di 26.357 contratti depositati il 16 ottobre 2017 che prevedono forme premiali correlate alla produttività, 13.687 sono ancora attivi e di questi, 4.333 prevedono misure di welfare aziendale (erano 2.626 l’anno precedente). Come accennato, le agevolazioni fiscali sono un buon modo per accelerare la diffusione del welfare aziendale e per aiutare le aziende a spendere meno e in modo più efficiente. Un’ottima politica fiscale, se isolata, non può però sostenere da sola il successo di un piano di welfare: occorre fare di più e andare oltre i numeri sensibilizzando i lavoratori, motivandoli e aiutandoli a fare scelte consapevoli. (riproduzione riservata)
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